Regia di Jens Lien vedi scheda film
Un pullman sgangherato conduce un uomo ad una stazione di servizio abbandonata situata in una zona semi desertica. Quest’uomo è Andreas Ramsfjell (Trond Fausa), che da come è conciato si capisce che non se la passa tanto bene. Ad attenderlo per dargli il benvenuto c’è un uomo che lo conduce fino alla vicina città. Qui gli viene dato un appartamento e un posto di contabile con ufficio in un’azienda situata proprio al centro della città. Tutti sono gentili e disponibili con Andreas facendolo sentire subito come uno di loro. L’uomo si rapporta con la sua nuova vita assumendo un atteggiamento che oscilla tra il meravigliato e il disorientato. Anche perché si avvede che le persone che lo circondano sembrano non provare emozioni concrete e che le cose che mangia o beve non hanno più il solito sapore. Anche Ingemborg (Birgitte larsen), una ragazza che sembrava corrispondere al suo amore, gli si rivela essere indifferente ai richiami dei sentimenti come tutti gli altri. Poi conosce Hugo (Per Shaaning), che come lui vuole cercare di penetrare l’enigmatica perfezione che avvolge l’intera città. Che cos’è quel luogo privato degli odori, dei suoni e dei sapori di sempre ?
“The Botersome Man” del regista norvegese Jens Lien è un film dall’aspetto glaciale e dai contorni fantascientifici, capace di portarci a chiedere cosa siamo disposti a disperdere della nostra umanità pur di corrispondere ad un’idea di benessere tutta da definire.
Che cos’è la felicità e cosa significa essere felici ? Abitare in un luogo dove ogni cosa è organizzata alla perfezione, dove tutto è funzionale per il buon funzionamento della cosa pubblica e dove un lavoro adatto lo si trova a chiunque, potrebbero rappresentare dei requisiti sufficienti per dare alla domanda data delle risposte attendibili. Eppure possono non bastare se in questo quadro sociale ci togli il piacere estemporaneo donato dall’imprevedibile, da tutte quelle cose, cioè, che accadono semplicemente perché partecipi degl’invariabili accadimenti umani, quelle che donano alla vita tocchi di calore e colore proprio perché sottratte alla razionale contabilizzazione del benessere. Anzi, in mancanza di ogni effetto sorpresa, quei requisiti buoni solo in teoria, nella pratica quotidiana possono proiettare la sensazione che tutti e tutto sono controllati e controllabili, che nulla e nessuno debba essere distolto dal ruolo che occupa nel disegno sociale, che ognuno debba accettare questo equilibrio benefico senza farsi “gratuite” domande. Certo è che questo garantisce un alto grado di pace sociale, ma al prezzo di anestetizzare ogni pulsione sociale, ogni desiderio di conoscere altro e andare oltre. Di rendere indifferenziata qualsiasi scelta di valore.
È appunto questa condizione che possiamo definire socio-psicologica che il film di Jens Lien ha inteso mettere in evidenza, elaborando una messinscena che prende in prestito gli stilemi tipici del racconto fantascientifico per oscillare continuamente tra l’analisi verosimile sulla società contemporanea e la narrazione fantasiosa sugli effetti che può produrre sulle persone, tra accenni ironici e derive apocalittiche. Il film si presente come il confronto tra un mondo che impariamo a conoscere attraverso lo sviluppo della storia e un altro che è quello da cui Andreas è fuggito. Nulla ci viene raccontato del passato dell’uomo, basta solo tutta la sequenza iniziale (subito dopo una sorta di prologo) per capire che è male in arnese e che è salito sul primo mezzo di trasporto disponibile per fuggire lontano. A mio avviso, la forza del film sta proprio in questa capacità di saperlo evocare attraverso un continuo e sottinteso termine di paragone con quello che ci viene mostrato, di presentarsi come “normalizzato” alla mente di Andreas con il suo carico di odori e sapori, suoni e passioni. Quell’imperfetta vita che si è lasciato dietro gli appare come una cosa da rivalutare al cospetto della città in cui vive, un contesto civico dove l’eccesso di alcol non ubriaca più, la cioccolata non sa più di cioccolata, i bambini non fanno i bambini e dove persino il dolore fisico viene lenito con irrisoria facilità. Tutti sono gentili con tutti, tutto funziona alla perfezione, ogni cosa è al posto in cui deve stare e ognuno mostra di gradire senza obiezioni il modo in cui procede l’andamento della propria vita. Ma è proprio questa perfetta armonia tra l’ordine sociale e i suoi abitanti a catapultare Andreas in una dimensione straniante, a fargli vivere un rapporto enigmatico con un contesto sociale dove il gusto naturale di abbandonarsi ai piaceri della vita è annacquato dall’esigenza pratica di far camminare ogni cose su delle direttive collaudate, dove ogni persona evita di provare emozioni forti per non corrompere la tranquillità raggiunta. Andreas è evidente fuggito da una vita andata in riserva, ma se ne ritrova a viverne un’altra dove a mancargli più di ogni altra cosa sono la varietà e la corrispondenza dei sentimenti più puri, il fatto di doversele guadagnare le cose, il trasporto emotivo, il fuoco delle passioni (vedere la sequenza del bacio che apre il film). L’opprime questa ostentata esposizione di benessere, anche perché non ci impiega molto per accorgersi che è l’effetto di un’omologazione controllata e non il frutto di un consapevole miglioramento della qualità della vita. Quest'esistenza piena di vuoto che sembra accontentare proprio tutti rimane un enigma insolubile per Andreas. Ma ogni domanda in merito non è gradita perché suona come un’indebita e malsana intrusione. Ad Andreas non resta che seguire l’origine di una musica misteriosa che arriva da lontano.
Un film che mi ha incuriosito per la trama intrigante e che mi ha piacevolmente sorpreso.
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