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72. Kogus

Regia di Murat Saraçoglu vedi scheda film

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La recensione su 72. Kogus

di OGM
6 stelle

Orhan Kemal (1914-1970) ha conosciuto la prigione. L’ha vista da dentro, da poeta dissidente, da coscienza ribelle che non si arrende al dilagante degrado. Per questo, nel suo racconto del 1954, la descrive come se fosse fatta di pareti impenetrabili solo per i corpi, ma perfettamente trasparenti ai pensieri. La fuga è una pratica intellettuale che alterna l’osservazione della cruda realtà con la contemplazione dell’immaginario. All’inesorabile peso della miseria reagisce, a tratti, con la delicata leggerezza del possibile, di ciò che dentro l’uomo continua a vivere come sempre, con infinita energia, a dispetto della fame, della sete, del freddo, dell’abbrutimento che minaccia di prendere il sopravvento. Nell’oceano della barbarie il capitano Ahmet è un faro, una boa, un’ancora di salvataggio. È la magnifica eccezione che non rifiuta la regola:  non permette, infatti, che la sua unicità si trasformi in solitudine, in superbia, in uno sdegnoso distacco dai suoi simili, così vicini, eppure così diversi. Sono ridotti ad animali, ormai, ma lui non li allontana da sé. E quando, un giorno, gli capita tra le mani una fortuna insperata, la condivide generosamente, a beneficio di tutti. Il film di Murat Saraçoglu ripercorre questa rinascita morale e materiale, mantenendo però, nel tono narrativo e nella scelta dei colori, la stessa ambiguità che permea l’atmosfera del libro: la luce torna, in quello squallido e sudicio stanzone che si chiama dormitorio 72,  ma il buio non si lascia vincere del tutto. Nell’ambiente permane una tiepida penombra, un’aria grigiastra che impedisce ai sogni di prendere forma, relegandoli nello sfondo invisibile di una vicenda che resta comunque  incatenata all’orrore: a loro riserva un  lembo marginale e nascosto, che sembra più dolce solo perché più incerto, più sfumato, più logorato dalla stanchezza di inseguire ingenue illusioni. Meschinità e romanticismo si mescolano in un gioco di contrasti che odora di umanità acerba, ferma all’infantile distinzione tra buoni e cattivi, e che vede la spietata arroganza dei potenti contrapposta alla desolante primitività a cui si riducono le loro vittime: individui spesso imbelli e servili per necessità, ma anche ipocriti e subdoli per carattere. Sull’impianto scarno, struggente e disadorno del romanzo, il film innesta, ampliandone la trama, una serie di situazioni tanto estreme quanto paradigmatiche di una visione del mondo che non conosce mezze misure nella descrizione del male e dei suoi effetti, mentre sorride di compassione di fronte alle futili vittorie del sentimento.  Si può prendere una storia piccola,  avvolta nella naturale modestia della tristezza, e farne un film  semplice, rassegnato alla banalità del mondo, alla nostra incapacità di comprendere il dolore e l’ingiustizia al di là della loro convenzionale evidenza. È forse un’operazione rassicurante e minimalista, che ci fa sentire bambini, rannicchiati nella nostra innocenza che non si pone domande, e che non giudica se non per sentito dire. In fondo è così facile infonderci quel pianto che nasce dal ricordo delle favole brutte, dei mostri che infestavano i nostri incubi, dei desideri che non si sono avverati. Ma il punto è che non si diventa mai adulti, se si rimane ostaggi dei soliti fantasmi: del tradimento, del sadismo, della prevaricazione e della loro ottusa inspiegabilità. Orhan Kemal voleva che noi guardassimo quegli spettri solo di sfuggita, per poi andare oltre, e proseguire il nostro cammino da soli, sviluppando le suggestioni in idee tutte nostre, tutte nuove.  Murat Saraçoglu ha preferito condurci per mano. Per lasciarci, poi, forse, tutto sommato, al punto di partenza. 

 

 

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