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Baba Joon

Regia di Yuval Delshad vedi scheda film

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La recensione su Baba Joon

di OGM
7 stelle

Di padre in figlio. Anche la determinazione è ereditaria. Ma fa a pugni con la tradizione. baba

Papà caro. Moti lo dice a Izhtak. E chissà se davvero lo pensa. Forse lo ama, nonostante tutto. Anche se non gli piace la vita che quell’uomo così severo e diligente gli ha preparato. Lavorare nell’azienda di famiglia. Un allevamento di tacchini, in continua espansione. Un capannone invaso da un oceano di becchi rossi e piume bianche. Un immagine agreste deformata dai discutibili canoni estetici della crescita economica, della produzione in serie, dell’efficienza che è quantità senza limiti, il sempre di più, il tutto e subito. Solo che quel tutto, in questo caso, è la decisione radicale, definitiva, che non ammette alternative. Moti vorrebbe seguire la propria strada, ma non può. Vorrebbe fare il meccanico, costruire e riparare le macchine, mettere a frutto il suo straordinario intuito per i motori, i congegni, le invenzioni fantasiose e funzionanti. Dare sfogo alla sua immaginazione fatta di metallo, di rombi, di scintille. Una scoppiettante magia che gli accende il cuore, e però spaventa gli animali. Spezza l’uniformità di quel silenzio popolato di pigolii, sporca di grasso quella distesa immacolata, esprimendo un’appartata ribellione alla religiosa cura del gregge. Di là il bestiame che disciplinatamente nasce, si pasce di quintali di mangime, si riproduce e si vende, di qua i rottami sparsi che si trasformano in sogni. Il contrasto è una questione di pochi metri. Un breve salto generazionale divide un piccolo universo in due, abbracciando però l’intero spettro delle prospettive umane, quelle che fanno restare o partire, seguire la corrente o rompere le righe, obbedire o replicare. La casa dei Morgian è un mondo a sé, un’enclave iraniana nella terra d’Israele, un microcosmo che sembra fatto apposta per rimanere chiuso nella propria eccezionalità. La nostalgia della patria del vecchio padre di Izthak e la fuga in America di suo fratello sono le uniche sue diramazioni nella realtà esterna, due esili fili protesi verso le possibilità che evadono dal presente, rifiutandosi di ingabbiarvi il passato e il futuro. Il resto è una prigione da cui nemmeno il racconto può uscire. L’orizzonte non si vede. I campi e i prati sono affacciati sul nulla, si sottraggono ad ogni localizzazione, si estendono da soli senza sapere dove sono. I viaggi sono aboliti, le mete restano fuori dallo sguardo. Lo stesso Dio è sospeso in un luogo irraggiungibile, verso cui si punta il dito durante le liturgie, ma che non entra in casa, nemmeno nella forma del libro della fede. Persino a Lui è vietato occupare uno spazio riservato ad altre faccende: accudire i pulcini, spuntare i becchi agli animali giovani, caricare quelli adulti sul camion. Sembra strana questa cocciuta assenza di speranza. Questa determinazione paterna ha il volto crudele e inesorabile di una condanna. È spietata senza ragione, ma anche senza vera violenza, e ha il vago sentore di una anomala concezione dell’amore: quella che presenta i tratti del culto irrazionale, e risponde alle esigenze del cuore, però da lontano, percorrendo vie buie e tortuose. L’anima contiene un labirinto inaccessibile, che parla il linguaggio strozzato dei divieti, dei comandi, dei no punto e basta. Una perentorietà in cui la narrazione annega. E ad onor del vero, è giusto sia così.    

 

 

Baba Joon ha rappresentato Israele al Premio Oscar 2016 per il miglior film straniero.

 

Asher Avrahami

Baba Joon (2015): Asher Avrahami

 

scena

Baba Joon (2015): scena

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