Regia di Martin Zandvliet vedi scheda film
Durante Seconda Guerra Mondiale la costa occidentale della Danimarca fu disseminata di mine dagli occupanti nazisti temendo che lo sbarco alleato potesse avvenire proprio da quelle parti. Nel 1945, a guerra ormai terminata e con la sconfitta definitiva della Germania, i governanti danesi, ignorando deliberatamente la Convenzione di Ginevra, usarono proprio i prigionieri tedeschi per liberare le spiagge da quelle stesse mine.
Ispirandosi a questo tragico evento, a lungo tenuto nascosto a tutti e solo di recente reso noto all’opinione pubblica, il regista danese Martin Zandvliet realizza il suo lungometraggio d’esordio, presentato in concorso al Tokyo Film Festival del 2015, vincitore di 3 European Film Awards e nominato agli Oscar del 2017 come miglior film straniero.
Sceneggiato dallo stesso Zandvliet, Under sandet (titolo originale) é un film incisivo e duro (ma anche inaspettatamente delicato e, a volte, quasi poetico) che descrive e mette tragicamente in scena una realtà post-bellica cruda quanto spietata e (speso) disumana.
Sappiamo fin tropo bene come al termine della guerra i suoi eventi successivi siano un momento estremante dolente dove rabbia, frustrazione, odio e violenza gratuita prendono il sopravvento e si abbattono, senza alcun riguardo, sui suoi sopravvissuti.
Disumana é la guerra e disumano è l’uomo, specie quando ferito, e i vinti devono essere puniti e umiliati indipendentemente dalle loro effettive colpe.
E’ la banalità del male tanto cara a Hanna Arendt.
E il film ne ripercorre le tappe con la tensione emotiva di un’ambientazione incantevole che stride con i caratteri tragicamente feriti di un gruppo di giovani prigionieri, non ancora pronti e ben lontani dal diventare uomini, in rappresentanza di un popolo che, dopo aver messo a ferro e fuoco l’Europa, viene chiamato a rispondere dei suoi crimini ma facendone pagare il prezzo alle persone sbagliate.
La fotografia, fredda e naturale, é rappresentativa di un’aridità degli animi costantemente in balia delle emozioni, capace di catturare sia la bellezza che la barbarie dell’animo umano, con una narrazione costantemente in tensione ma con una regia che sceglie l’omissione piuttosto che immagini troppo esplicite, che predilige silenzi carichi di emozioni a esternazioni rabbiosamente vuote.
Con una regia attenta a far risaltare i dettagli delle situazioni e a fotografare senza fronzoli (o facili sentimentalismi) le dinamiche creatasi all’interno del gruppo, un gruppo dove nessuno o quasi si salva da errori comportamentali, pur restando asettica, intenta quasi esclusivamente a mostrarne i peggiori comportamenti nel bel mezzo di un panorama splendido, come a suggerire che è l’uomo e il suo agire a determinare l’effettiva bellezza di un luogo e di trasformare anche un posto bellissimo in un proprio inferno personale.
Il film gioca molto su questo contrasto, tra natura paesaggistica e comportamento umano, ed è questa chiave di lettura a permettere di elevare le doti interpretative di Roland Moller e dei suoi giovani interpreti dei soldati tedeschi, tutti attori ancora sconosciuti al grande pubblico.
Peccato però che Zandvliev svilisca in parte il finale con un (parziale) lieto fine che assume un po i contorni del gesto riparatoria non solo nei confronti del senso di colpa del sergente (e quindi dell’intero popolo danese?), che così trova una propria epifania, ma anche di quello degli spettatori forzando in parte il racconto per raggiungere un’emotività però di facciata, non fidandosi (forse) dell’eccessiva disponibilità del pubblico ad accettarne i troppi compromessi, e dovendo quindi ricorrere a un deus ex-machina per semplificare risvolti morali che il pubblico avrebbero potuto considerare in modo troppo negativo.
P.s. La pellicola di Martin Zandvliev sostiene (e non potrebbe essere altrimenti) la causa dello sminamento in tutto il mondo da parte di Amnesty International.
VOTO. 6,5
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