Regia di Martin Zandvliet vedi scheda film
Il morto che cammina
Camminare vuol dire muoversi; è un gesto spontaneo, un’azione che avviene in automatico.
Significa calpestare il suolo, poggiare ripetutamente, uno dopo l’altro, i piedi su una superficie che può essere piana, irta o scoscesa, ruvida o scivolosa.
Una strada, un prato, un bosco, una distesa di sabbia, nel deserto come in riva al mare.
Camminare e non badarci. È così che succede.
A volte, però, è necessario fare bene attenzione a dove mettere i piedi.
A dove posare il proprio passo e quello ancora successivo.
Una questione di millimetri e si rischia di perdere la vita.
Oppure, nel migliore o nel peggiore dei casi -è una questione di punti di vista-, si resta gravemente mutilati: gambe, braccia, insieme o separate, e/o altre parti del corpo saltano via in un colpo solo se, semplicemente camminando, si finisce per poggiare il proprio peso in un punto ‘sbagliato’ della strada, del prato, del bosco o della distesa di sabbia.
Per il loro essere collocate sottoterra a pochi centimetri da una qualsiasi superficie calpestabile e per ‘la loro capacità di starsene nascoste in silenzio nell’attesa di deflagrare’, le mine -ordigni esplosivi a raggio limitato- rappresentano una pratica di distruzione abominevole, tra le peggiori atrocità escogitate che un uomo possa infliggere ad un altro uomo.
Sono un’arma subdola perché invisibile ad occhio nudo, sono una trappola impietosa e definitiva, un modo vigliacco, profondamente crudele e sicuro di finire e vincere sul 'nemico, perché (quasi) mai falliscono, perché evitano le incognite dello scontro diretto.
Perché per andare a segno sfruttano un gesto naturale come il camminare, che spesso e volentieri si dimentica di adottare un prudente livello di guardia. Così, chiunque vi finisca sopra, ci arriva da solo, senza accorgersene, con le proprie stesse gambe. Nessuno vi viene condotto di peso.
Una sorta di suicidio indotto.
Le mine sono un meccanismo efficace, resistente nel tempo. La loro aspettativa di vita supera quella delle guerre in cui vengono impiegate.
E si rivelano assolutamente democratiche nell’assolvere al compito di fare pulizia alla radice, nell’immediato presente come in un eventuale futuro prossimo venturo.
In tutti i conflitti armati, quelli del passato e del nostro presente, le mine continuano a mietere vittime, tra soldati e civili, indistintamente.
Land of mine - Sotto la sabbia narra di un episodio tanto poco noto quanto terribile avvenuto sul finire della seconda guerra mondiale: lo sminamento della costa danese da parte di soldati prigionieri tedeschi, perlopiù ragazzini, che le infami illogiche ragioni dettate dalla guerra sradicarono dalle loro vite appena germogliate, costringendoli a vestire una divisa, imbracciare un fucile e combattere.
Facendo di essi carne da macello, destinandoli ad una fine orribile.
Tra i tanti, un gruppo di giovinetti venne utilizzato per ripulire una grossa fetta di litorale, luogo ventoso, selvaggio, incontaminato, magnifico se vissuto in ben altre condizioni.
Per loro, un inferno in paradiso, dal quale pochi, pochissimi, ne vennero fuori. Ogni giorno, tutti i giorni della loro prigionìa a cielo aperto, li trascorsero in quel cimitero di sabbia, stesi o a carponi, ad ingaggiare uno strenuo, delicatissimo testa a testa con la morte, postasi lì, in pianta stabile, impegnata senza sosta ad alitargli sul collo ancora imberbe.
Il film narra i fatti adottando uno sguardo lucido e realistico, teso a prediligere la crudezza essenziale degli accadimenti, spesso insostenibile, dribblando con successo la stucchevole retorica sentimentalistica perennemente in agguato.
Si mantiene rigoroso e asciutto per tutto il tempo, ma la ragionata secchezza dello stile non diviene un deterrente per l’umana compassione e tantomeno impedisce alla carica empatica di fare il suo dirompente ingresso in scena. In questo modo la pellicola non si raffredda, permettendo la compenetrazione emotiva da parte dello spettatore, letteralmente incastrato nella storia, attraversato/torturato da una tensione che gli mozza il respiro e che raramente gli concede tregua.
Tensione che, in verità, dovrebbe scemare dato che il film è sfacciatamente prevedibile.
Ogni svolta drammatica ed ogni episodio di morte ivi presenti possono, infatti, essere calcolati con largo anticipo e con precisione infinitesimale.
Perché mai, allora, l’atmosfera così tesa da essere tagliata con un coltello continua a mantenersi alta e difficilmente gestibile?
Proprio quello che potrebbe apparire il difetto maggiore dell’opera di Martin Zandvliet si rivela, inaspettatamente, il suo punto di forza, la sua ragione d’essere e la sua capacità di rimanere imbrigliata negli occhi e nella mente dello spettatore ben oltre la visione.
Perché Land of mine ci sbatte in faccia la verità: la sicurezza della morte.
Ogni istante che i ragazzi passano a maneggiar esplosivi è l’istante ideale per lasciarci la pelle. Sappiamo che moriranno, lo abbiamo sempre saputo, fin dall’inizio, non ci resta che guardarli in azione e aspettare, impotenti, che arrivi, ineluttabile, il momento estremo.
Anche se, quando accade, ci sorprendiamo lo stesso impreparati.
Tuttavia, la crudezza dell’opera offre spazio a soluzioni visivamente meno sconvolgenti, dove la morte in atto è volutamente lasciata fuori quadro. Per rintracciare i corpi senza vita un istante dopo.
O non raggiungerli affatto, limitandosi, per esempio, a mostrarci da lontano l’esplosione.
Oppure, scegliendo d'intervenire sul sonoro azzerando il volume, così da neutralizzare il boato assordante (emotivamente devastante) della deflagrazione, come avviene in uno dei segmenti più toccanti e, anche per mezzo di tale accorgimento, più belli e poetici del film.
Land of mine ammutolisce.
Visione sofferta ma necessaria.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta