Regia di Kuba Czekaj vedi scheda film
Lui si chiama Mickey House. Non è un errore di battitura. È un topo di fantasia, disegnato per i bambini, ma soprattutto è un animaletto di casa. È un ragazzino che sta crescendo, e non sa che fare. Non può fermare quel suo corpo che si sta trasformando, si sta liberando dalle grandi orecchie pelose con cui si ascoltano le favole, per ridursi ad un ammasso di carne tumida, rossa e glabra, come una cavità satura di desideri, come un bubbone ripieno di passione. Protuberanze oscene e liquidi organici sono la sua nuova ossessione. Il sangue prende il posto della marmellata di fragole nell’immaginario della voluttà, quella che un tempo emanava un profumo materno, e che ora è la traccia di una crudele sconcezza: quella in cui si manifesta un nuovo modo di volere ed amare. Mickey non riesce a sbarazzarsi di quello sgargiante viscidume, in cui è precipitato, in cui è rimasto invischiato, come dopo una marachella da cui non esista via di scampo. C’è una sostanza collosa che gli imprigiona le dita come fosse attaccatutto, mentre la pancia si fa prominente, indecente come un peccato di cui vergognarsi. Tagliare via la pelle, e vestirsi di nero per restare invisibile: questa volta è lui stesso ad infliggersi le punizioni materne, quelle che abitualmente gli distruggono i giochi e lo chiudono in casa. Mickey intacca la propria integrità, e si sottrae agli sguardi per continuare ad essere piccolo e semplice, diverso da quegli adolescenti che fanno cose proibite e sporche, cose da grandi, mentre lo trattano come un repellente mostriciattolo. È inevitabile che Mickey cominci a provare disgusto per se stesso. Gli danno la nausea quelle pratiche rivoltanti che vede incombere sul proprio futuro, o quelle a cui, fin d’ora, è costretto a cedere, come, ad esempio, vendere la propria urina ai suoi coetanei, al fine di salvarli dai controlli antidroga. Schifo è ciò che, trafiggendo la coscienza, fuoriesce dagli orifizi corporei, e che finisce in un unico, immenso calderone di (dis)piaceri maleodoranti. In questo gioco ci si rapporta al mondo attraverso il filtro lubrico dei sensi, in cui la materia vivente è molle ed inquieta, ansiosa di contatti, mai sazia di trasgressione. L’universo infantile, dipinto nelle tinte pastello delle caramelle di zucchero, non modifica il proprio aspetto, ma ne stravolge il significato: la dolcezza assume una connotazione lussuriosa, la morbidezza diviene sintomo di debolezza, mentre la rotondità prende il carattere selvaggio di una fecondità che sfugge al controllo. L’uovo, come un ventre gravido, si gonfia fino a scoppiare. Metamorfosi e rottura sono le fasi violente del ciclo vitale, che crea il guscio solo per lasciarlo spezzato e vuoto, come un inutile coccio, a rappresentare il dolore e l’abbandono. Il film di Kuba Czekaj – regista polacco appena trentenne – interpreta la crisi della pubertà come un variopinto incubo ad occhi aperti: un vortice maledetto che si forma, all’improvviso, dentro la luminosa normalità della vita, trascinando l’innocenza dentro le trappole di una finta bellezza che ha deciso di gettare la maschera. È un brutto incantesimo quello che, d’un tratto, tramuta la levigatezza dello sguardo in una spietata evidenza. La mamma è sempre la mamma. Ma il candore del suo viso diventa la superficie immacolata dello specchio in cui si riflette, nuda, la malizia.
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