Regia di Sanjay Leela Bhansali vedi scheda film
Ci sono dei momenti in cui, nella vita, bisogna riscoprirsi bambini. Infanti. Aperti a tutto mentre si è nel mondo chiuso dei sogni o delle ombre. Sono degli attimi, certo solo degli attimi, in cui il tempo per davvero viene sconfitto da un battito di ciglia e la mente si arrende all’evidenza: siamo nuovamente quelli che ci eravamo persi per un po’ nell’uomo. Avevamo avuto fame dei luoghi, e sete delle stagioni e avevamo creduto che incamminadoci lungo questo sentiero di pietre e di fiori, sì certo, questo bellissimo viale di stoppie ai margini delle nostre secche caviglie, alla fine ci avrebbero ritrovato in paradiso. O cosa diavolo ci hanno da sempre raccontato sia il paradiso.
Ed invece vale la pena, un pomeriggio d’agosto come tanti altri, sospeso com’è tra un lavoro precario a cottimo ed un cielo basso di nubi e di fulmini, assentarsi dalla maturità, sgonfiare l’abominio della saggezza, smettere la palandrana del ‘so-tutto-io’ e sedersi a terra, risentire la terra della stanza e la stanza della terra, e davanti ad un televisore guardarsi un film come “Black”.
Perchè “Black” è un film meraviglioso, anzi è un sublime modo per tornare uomini-bambini e spettatori-bambini. Forse, anche, uomini-spettatori. Cambia tutto. O molte cose. Cambia, innanzitutto, il giudizio – sempre ignobile, direi – che avevo dato a quel gran baraccone di fastosa pigrizia produttiva che va comunemente sotto il nome di Bollywood. Un vezzeggiativo torchiato a marchio di fabbrica che accomuna tante cose; dalle tette biricchine di Kajol ad una scena tra le più disperanti di “Dil se”, e che niente o quasi niente mi aveva lasciato in cuore ed in mente. Di ciò poi che conoscevo. E converte in acqua limpida molta di quella foschia mèlo che, incocciata qui e là a passo falso, ripudiata era stata come se contenesse dentro sè – manco fossimo sempre a San Antonio Bay il giorno del centenario – fantasmi morti assetati dei miei sbadigli. Permuta, infine, “Black” l’idea che non si possa realizzare un mezzo-remake-e-mezzo, con la sana convinzione che il cinema è l’arte dell’onesto imbroglio (“Le voyage mi è costato quasi 10 mila franchi, ed ho pure ingannato più di un finanziatore per finirlo, ed ora mi vogliono buttare sul lastrico con le loro copie illegali!”, pare ebbe ad urlare Georges Méliès non appena gli riferirono del primo atto di pirateria che storia cinematografica ricordi), e che come tale ogni cosa sia ad esso permessa. Con un pizzico di ardore. Con un calamo d’arte. Con enfasi, magari.
Sanjay Leela Bhansali la prende alla lontana, recuperando alcuni passi dell’autobiografico “The story of my life” di Helen Keller, vedendo e rivedendo “The miracle worker” di Arthur Penn ma – e qui, ardore, arte ed enfasi diventano d’un colpo una cosa sola – immaginando una sceneggiatura che ‘sviluppa’ la ‘guarigione’ della ragazza sordocieca, in una sua portentosa ricerca di rimettere in gioco i termini della spinosa questione. Cos’è la sfera del reale, come la si avverte, quanto di essa è comunicabile, fin dove è possibile sostenere che nulla sia impossibile per i sensi dell’uomo (o per la menomazione-sublimazione di essi)?
La storia di “Black” è chiara come la luce. Da un lato c’è il mondo. Con il padre Paul (l’attore Dhritiman Chatterjee), che ama sua figlia ma non può mostrare il suo affetto e che nasconde questa incapacità sotto una patina di furente impazienza. I suoi continui scoppi di rabbia, in realtà, sono uno sfogo all’angoscia di non poter fare nulla per cambiare una situazione che lo opprime e lo mette a disagio. Con la madre, la brava attrice di teatro, conosciuta sia in India che in Inghilterra, Shernaz Patel, che qui dà prova del suo saper dosare delicatezza di posa e forte spirito espressivo. Catherine McNally è un personaggio che riesce a captare i problemi della figlia; se è necessario, lei è pronta a combattere contro la società, a muso duro contro le insegne bardate del pregiudizio e della morale qualunque. Alla fine è lei la forza motrice che forma il carattere della sua straordinaria creatura, permettendo che l’innato senso per il gesto e per il suono vocale diventino trasmissione.
In una terra di mezzo, diciamo meglio in perenne orbita attorno al pianeta ma con occhi e cuore piantati verso il satellite muto che si fissa, non appena alzati sono sguardo ed attenzione, sta un tenace, ossessivo e passionale Amitabh Bachchan che dà al suo personaggio – il professore Debraj Sahai – tutta la potenza della sua personalità. Lui è l’ostinato insegnante (anche se lui stesso si qualifica ironicamente come “una mago che dà inizio alla sua magia”), che è determinato a seguire tutte le possibilità, a battere tutte le strade sia conosciute che sconosciute per strappare una mente al buio della ragione ed una creatura alle porte di ferro del manicomio. Un simil-sosia di Al Pacino che, entrato in scena non ne esce più modellando la sceneggiatura sulle sue bizze, sul suo glamour, sulla sua disperata malattia interiore che lo spinge a sfidare ogni convenzione e a ricercare – quando riesce a staccarsi dal collo della bottiglia e dalle ombre dei suoi diavoli interiori – “il flusso che lega dio alle sue creature”.
Infine, luna selvaggia in un cielo di fuoco e di odori ancestrali, si muove lei. Michelle McNally; nell’infanzia interpretata da una strepitosa Ayesha Kapur (“Lei è una star, un mostro di coraggio, un genio di spontaneità e di misura, non è una semplice bambina ma un essere che ha già l’aura di una rockstar!”, e guardando attentamente la sua interpretazione, come non sottoscrivere le parole entusiastiche di Bhansali?), e nell’età adulta da una sorprendente Rani Mukherjee, che cesella dignitosamente il carattere brillante e curioso, spesso trasportato da una vivacità al limite dell’istintivo.
Sono questi i tre cerchi concentrici, i tre percorsi incurvati dalla gravità dell’esistenza umana che creano il sistema in cui veniamo catapultati dalla visione del film. Anche noi, astronauti persi nel black di un universo in cui solo chi ha esperienza di certe cose, capisce e persevera nel capire. O a sfiorare nell’aria, a dieci dita aperte, questa realtà-braille!
L’ellissi di “Black” è un vero pastiche autoriale che mischia il musical (Bhansali aveva esordito a metà anni ’90, con quel genere lì e con risultati altalenanti), grandangoli, giochi di luce, scrittura luminosa alla Greenaway, pillole di scienza dell’apprendimento che manco Piaget (“la conoscenza può avvenire in un istante, ci vuole una scintilla che dia fuoco a tutta la legna accumulata”), parti di biopic ad alta gradazione sentimentale (o sentimentalistica, d’altronde sempre in Punjab siamo), curiose ‘gabbie videoartistiche’ (il gioco dei toni fotografici tra Debraj ormai perso nei gorghi dell’Alzheimer, e la sagace Michelle che vuole rendergli pan per focaccia, anzi parola per significato), oscure lacerazioni di natura dark, vivide parodie (da ricordare almeno la scena in cui Michelle, lasciata da sola in strada dal professore per misurarsi con l’orientamento, fa avanti ed indietro con la sua andatura divaricata ed il bastone che le ciondola davanti, proprio sull’ingresso di un cinema dove proiettano sempre e solo film di Chaplin!), insopportabili parentesi familistiche e portentose idee registiche appena abbozzate.
Ciò che rimane più impresso è l’uso del corpo come organo primario di linguaggio e di destabilizzazione delle barriere sensoriali; il capovolgimento della menomazione che gioca sul suo campo e stravince il derby con largo margine, e le implicazioni – mai dozzinali, spesso fulminanti – che il gioco del doppio sistema sensi/senso regalano per bocca dei due protagonisti. “Gli occhi non vedono i sogni, ma lo spirito sì. Io non posso vedere con i miei occhi, eppure io sogno. Io vedo i miei sogni”, dice Michelle nell’aula universitaria, ribattendo ad una tesi poetica che negava una seconda o terza o quarta dimensione alla realtà sciente.
Va da sè che è tutta la prima ora del film la migliore (120 minuti, forse anche troppi), quella in cui davvero si innescano le migliori alchimie dello script e si vedono danzare come su un ring, i lottatori della luce e dell’oscurità. Ma si arriva al fondo della storia senza rimproverarsi molto, seduti ancora per terra, come bambini cinquantenni con al fianco una madre su una sedia che – ad una certa ora 4 mg di Galantamina e la sera una compressa di Quietipina – a volte non ti riconosce, le prendi la mano e te la passi sul volto. Lei, forse, esce dal buio in cui passa le sue giornate, e per un attimo, sì magari è solo l’impressione di un attimo, ti vede ancora come un figlio suo e ti sorride. E pensi che, infante lo eri, e sua madre era cieca in un letto e le facevi per gioco toccare le cose, descrivendone altre. Così passavano molti pomeriggi. Così passano molte esistenze. “Il viaggio di un uomo comincia con l’oscurità e termina nell’oscurità. Un giorno noi dovremmo tutti passare per questa oscurità, ed entrare nella luce”. Eh, ma qui siamo già sul patetico – per Khrisna! – e sarebbe il caso di piantarla.
Ardore ed arte ed enfasi. Non è detto che tutto questo ci conduca dalle parti di un capolavoro. Ma di un film ciarlatano sì, bollywoodiano e straordinario come è lecito attendersi.
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