Regia di Pema Tseden vedi scheda film
È lungo e difficile il cammino che porta a trovare la propria identità. E lo è, altrettanto, il cammino che conduce a perderla. Tharlo è un pastore tibetano. Vive da eremita, con il suo gregge, in una zona semidesertica di montagna. Basterebbe a se stesso, se fosse davvero solo al mondo. Se nessuno lo conoscesse, né sentisse il desiderio di conoscerlo. Ma il punto è che Tharlo è cittadino di uno stato, la Cina, e in quanto tale deve avere la carta di identità. Per procurarsi il documento, è costretto a recarsi in città, dove dovrà anche farsi scattare una fototessera. In quell’occasione, Tharlo scopre l’altro da sé, e, soprattutto, si scontra con la propria inadeguatezza. È sporco e spettinato, e dunque viene mandato dal parrucchiere. È sprovveduto, e quindi è facile ingannarlo. La mancanza più pericolosa è, però, forse, il fatto di non sapere cosa sia l’amore. Non capire quel raffinato gioco di dare e ricevere, intessuto di maliziosi sottintesi, non lascia che due possibilità: restarne fuori, oppure farsi travolgere completamente dalla sua trascinante magia. Tharlo, spinto da una docile curiosità, sceglie questa strada, che si rivelerà senza sbocco, eppure avrà lo stuzzicante fascino della novità. Avrà il volto di una ragazza, il suono delle canzoni del karaoke, l’odore delle sigarette, il sapore della birra. Una favola moderna, colorata di luci psichedeliche e di bellezze da copertina, irromperà, nella sua vita, per sostituire l’idillio agreste in cui è nato e cresciuto. Contare le pecore e le capre. Allattare un agnellino. Usare i petardi per scacciare i lupi. Tharlo non sa fare altro. La sua serena semplicità si traduce nella sobria fissità della sua espressione, che il bianco e nero di questo film sembra voler estendere a tutto ciò che lo circonda, come a sottolineare l’effetto dolcemente paralizzante della sua presenza. Trattare con lui richiede pazienza, lentezza, volontà di fermarsi per guardare meglio e trovare un appiglio da cui far partire un dialogo. Le parole gli girano intorno, forse arrivano ad accarezzarlo, ma senza scomporlo. Lui ascolta. Non capisce, però crede. La sua benevolenza lo dispone ad accogliere tutto ciò che, per quanto incomprensibile, gli viene proposto. Allora apre la sua anima per farla uscire dal recinto, per farle prendere aria, per farla pascolare, senza timore, perché è solo così che si può andare avanti. Il tempo scorre, e lo si deve prendere come viene, senza pensare al futuro. Si obbedisce alle leggi di natura, così come ci si sottomette ad una donna che ti invita a cantare, a bere, che ti richiama al piacere, alla possibilità di diventare più ricco e felice. Impensabile chiedere il come, il perché. Impossibile non seguire la tentazione di quella luce, anche se costringe ad attraversare una ignota oscurità. La rivelazione e la salvezza sono un bagliore – inafferrabile - che in un attimo squarcia il buio: il lampo che allontana le bestie feroci, o quello che serve a folgorare la tristezza. Pema Tseden porta sullo schermo uno dei suoi racconti più struggenti: una storia che diffonde, dal nulla delle distese sconfinate, silenziose, dimenticate, il senso di una calma assorta e fragile, esposta alle intemperie per un soave eccesso di innocenza.
“Viviamo trascinati, anima e corpo, da un incessante vortice di eventi disparati, senza riuscire a trovare il benché minimo momento di pace. Avere anche solo un istante di tranquillità sembra una speranza insensata. Scrivere è, per me, un modo per pervenire alla tanto desiderata pace dell’anima e del corpo.”
(dalla prefazione al volume di racconti Neige di Pema Tseden).
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