Regia di Federico Fellini vedi scheda film
Con Amarcord (1973), Federico Fellini aveva raggiunto il punto estremo della sua poetica; a questo punto dopo un film del genere o ci si ritira perchè proseguire sarebbe riproporre con meno originalità ed inventiva ciò che si era fatto meglio in precedenza, oppure bisogna cambiare totalmente registro con una forte rottura verso il passato. Il regista romagnolo sceglie di seguire la prima strada, non ho seguito la fase post-Amarcord ma essendomi procurato il Blu-Ray della Arrow pubblicato verso fine del 2018, ho avuto l'impressione di un film che è tutto Fellini ma anche parecchio autoreferenziale nelle situazioni che rappresenta.
Con La Voce della Luna (1990) suo ultimo film, Il regista ritorna alle ambientazioni della campagna Romagnola in cui passò l'infanzia, narrando una storia dall'ambientazione onirica in cui errano le solite caricature Felliniane, che abbiamo visto e rivisto in molte opere precedenti, così come la descrizione del paese emiliano in cui errano Ivo Salvini (Roberto benigni) e il prefetto Gonnella (Paolo Villaggio), due persone psicologicamente disturbate, i quali inseguono i propri sogni guidati dalla voce della Luna che rimbomba nei pozzi in cui un Ivo errante si affaccia.
I primi 20 minuti sono sicuramente i più coesi e compatti di una pellicola che nel corso delle due ore di durata, si sfilaccia nella narrazione, che diventa sempre più frammentata, episodica, elittica e sempre più priva di coordinate spazio-temporali.
La voce della Luna può essere ascoltata solo da chi pratica il silenzio, oramai pochi folli come Ivo, da poco uscito da un ospedale psichiatrico e da chi come lui è folle come i fratelli Micheluzzi che cercano di catturare il satellite.
Nel corso delle peregrinazioni vediamo varie caricature Felliniane, da un musicista che soggiorna in una cripta in un cimitero di aperta campagna, ad Aldina, una donna di cui Ivo è follemente innamorato tanto da associare il suo volto alla Luna, ma impossibilitato a raggiungerla visto che la ragazza lo detesta sino all'ennesima riproposizione della donna vogliosa incarnata da Marisa la vaporiera, per gli sbuffi di vapore che emana quando è in preda al piacere totale.
Sono riproposizioni di figure già note a chi ha visionato le precedenti pellicole del maestro e per forza di cose riproposte in modo maggiormente pigro, autoreferenziale e anche nostalgico. Tutta la pellicola in effetti è pervasa da una forte carica malinconica presente in questi personaggi e specie nei folli che rappresentano l'antico e la tradizione che non si conforma all'avanzare omologante del progresso; il vecchio si mescola con il nuovo, il paese carico di storia è minacciato dall'avanzare del progresso rappresentato dalla stazione della benzina Q8 spesso inquadrata sullo sfondo e dalle numerose antenne televisive sulle tegole delle case, a dimostrazione di una società dei consumi arrivata anche nella provincia più profonda.
Si cerca di resistere all'avanzare del nuovo con la festa della "Gnoccata", però se non c'è nessuno a cui tramandare tutto questo tra le nuove generazioni ritratte da Fellini in modo abbastanza negativo, toccando l'apice nella festa in discoteca dove i giovani sono ritratti dal regista in modo abbastanza negativo e con fare molto rancoroso.
Il silenzio e l'edificio in rovina colmo di tradizione, sono profanati da una generazione di debosciati dedita al rumore più sfrenato e totalmente omologata alla musica dance di Michael Jackson, proveniente da una grandissima cassa audio tamarra ripresa in tutta la sua imponente grandezza. Fellini in questo frangente mostra tutto il suo spirito più retrogrado e reazionario del suo cinema, ogni generazione ha i propri gusti e i propri valori, ci sta che un uomo di 70 anni non ci ritrovasse, il problema è che la critica del regista è di quanto più qualunquista possa esserci e la soluzione è di quanto più stupido possa proporsi; il ritorno ad un valzer ripreso si in modo poetico e sentito, ma anche imposto allo spettatore come unico modo per ritornare alla purezza del silenzio propria del passato.
Praticamente Fellini critica i giovani e i loro gusti come li critica mio nonno; cioè con il classico e stupido "ai miei tempi", senza prendere in considerazione che magari quando lui maestro era un ragazzo, c'era qualche anziano che aveva da ridire sui giovani come lui.
Fellini non capisce i giovani e nè ci prova a capirli, nella ricostruzione autoreferenziale della provincia Romagnola il maestro si rifugia in un puerile conservatorismo reazionario; un atteggiamento da chi oramai a 70 anni è quasi rincoglionito (mi si passi questo termine forte) così come i suoi protagonisti nel film e alla fine non c'è nessuno che lo ascolti, poichè alla fine ciò che ha da dire interessa solo a lui.
C'è molta distanza e freddezza in queste caricature con cui è abbastanza difficile trovare empatia a differenza delle precedenti opere del maestro; frutto questo anche di una sceneggiatura che aveva una base di partenza ma totalmente improvvisata giorno dopo giorno dal regista sul set secondo quando riportato da co-sceneggiatore Tullio Pinelli e questo sicuramente non ha giovato alla struttura del film che spesso diventa puramente Fellinista senza essere Felliniano.
Il regista a 70 anni non ha perso minimamente il tocco alla regia, nè la sua grande visionarietà coadiuvato dall'eccellente fotografia di Tonino Delli Colli abile nel ritrarre l'anima arcana della campagna Romagnola nelle notti di luna piena che illumina i campi di grano persi a vista d'occhio, così come le scenografie di Dante Ferretti sono in grado di restituire in modo tangibile le intuizioni visive di Fellini, però l'ego del maestro che nelle interviste ha sempre sminuito l'utilità della sceneggiatura attribuendosi molti meriti, a lungo andare ha finito con il penalizzarlo ed in questo film si sente in modo forte come manchi una traccia unificatrice che possa dare uniformità alla fantasia del regista, che senza niente a contenerla viaggia a briglia sciolta disperdendo il proprio potenziale e culminando in un finale da delirio surreale poco convincente.
I film di Fellini come quelli dei grandi registi meriterebbero ulteriori visioni per essere recensiti meglio, però sinceramente voglio dare un parere di massima adesso senza aver letto nulla e rimandando in futuro ulteriori visioni. Massacrato dalla critica anglosassone a Cannes nel 1990, i distributori inglesi e americani decisero per questo di non acquistarlo; solo di recente con la Arrow Video questa mancanza è stata colmata grazie alla pubblicazione di un ottimo BD con un booklet e con un disco pieno di contenuti speciali (interviste a Fellini, Villaggio e Benigni) che consiglio caldamente di acquistare se fan del regista o amanti di questo film.
La Voce della Luna venne accolta molto meglio qui in Italia con tanto di critiche ed elogi positivi da parte di Kezich e Moravia che apprezzarono la critica alla società dei consumi incarnata dalla discoteca e dalla televisione commerciale che spettacolarizza ogni cosa distruggendo la contemplazione di eventi che andrebbero assaporati nel silenzio; ben 3 David di Donatello tra cui uno alle magnifiche scenografie di Dante Ferretti e un altro ad un magnifico Paolo Villaggio, al di fuori della sua maschera di Fantozzi, come miglior attore protagonista.
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