Regia di Ben Wheatley vedi scheda film
Mi piacerebbe sapere quale film detenga il primato assoluto della sparatoria più lunga del cinema, e non sapendolo sono propenso a credere che “Free Fire” possa aver agevolmente scalzato il suddetto record. Il film concede, all’inizio, soltanto una manciata di minuti all’esterno di quella che sarà l’unica location per tutto il tempo (una vecchia, dismessa fabbrica di non si sa cosa), che coincide più o meno con lo stesso minutaggio in cui le armi tacciono. Dopo di che, una volta introdotti alcuni (quanti bastano, per il momento) dei vari personaggi, la prima, rumorosissima tempesta di colpi esplosi da un fucile automatico AR70 contro un bersaglio di prova, diventa l’ouverture di una sinfonia di polvere da sparo che non terminerà mai, se non coi titoli di coda.
Detta così, sembrerebbe una faccenda noiosa. In realtà Ben Wheatleyè molto abile a dare ad ogni colpo sparato un significato e un sapore diverso: innanzitutto, nel suo voler/dover essere una gangster-story, “Free Fire” sa definire con pochissimi tratti, e tuttavia con molta attenzione, la personalità, la psicologia dei suoi protagonisti (che non sono pochi) e delle relazioni incrociate a vario titolo tra di essi, peraltro dosando benissimo i tempi in cui introdurre via via nuovi elementi (e personaggi), spiegando (o non spiegando volutamente) come stanno (o sono state) le cose. Poi, sa introdurre al momento opportuno (all’arrivo in scena dei due misteriosi cecchini) una tinta di “giallo” che cattura in maniera ineludibile l’attenzione dello spettatore. Ma soprattutto, secondo me, è capace di raccontare con matematica e salomonica equidistanza, attraverso le ferite via via distribuite, centellinate su ogni corpo e su ogni storia che questo corpo si porta dietro, l’aspetto grottesco del vivere umano, del competere, del volersi sopraffare a vicenda. E riesce a farlo in maniera giocosa, divertente (l’odore di Tarantino si sente lontano un miglio sin dai titoli di apertura), nutrendosi di quello “splatter” sano che non solo non disturba lo stomaco, ma al contrario stimola appetito, curiosità ed attenzione.
Se poi volessimo occuparci anche del “sonoro”, non solo dovremmo (guardarlo in lingua originale, of course) saper apprezzare la felice incastonatura di generi musicali (per le circostanze) improbabili (quando non inadatti) e così diversi tra loro, ma anche, fra le altre cose, l’effetto “riverbero” che d’improvviso avvolge la voce angelicata di John Denver che esce dallo Stereo8 del furgoncino rosso una volta entrato nel ventre acustico della fabbrica/macello.
Sulla goccia di femminile che, con Brie Larson, occhieggia in questa rocambolesca mattanza anni ’80 fatta altrimenti di solo testosterone, preferisco tacere, se non altro per ragioni di spoileraggio. Ma tutto il cast, e insieme a questo, regia, fotografia e soprattutto montaggio, merita un grossissimo applauso.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta