Regia di Stefano Mordini vedi scheda film
Se ne parlava da anni di portare sul grande schermo Pericle il nero, romanzo di Giuseppe Ferrandino della stagione pulp italiana, grosso successo francese dopo l’indifferenza editoriale nostrana. Già Piero De Bernardi, maestro della commedia di costume, ne aveva tentato invano una trasposizione e, almeno un decennio fa, Abel Ferrara aveva espresso il desiderio di dirigerne l’adattamento. Di quest’ultimo progetto è rimasto il protagonista: Riccardo Scamarcio, anche produttore con Valeria Golino e Viola Prestieri, con la sua recitazione primaria, quasi animalesca nei movimenti intimoriti di una bestia annichilita dal male, la cui voce bassa inonda la sgradevolissima storia di eccessi apodittici.
Ed è curioso che si deleghi alle parole del protagonista una narrazione così esplicativa (la scena iniziale in cui vediamo Pericle al lavoro ha davvero bisogno di quella letteraria e letterale spiegazione grottesca sul “fottere la gente”?) in un contesto che formalmente rinuncia a troppe parole, dichiarando peraltro l’estraneità o l’isolamento di un forestiero della vita. Pericle parla una lingua non sua che gli occorre per relazionarsi con un mondo che non gli appartiene, è totalmente incapace di una sana fisicità positiva al punto da necessitare di un’educazione alla parola, alla scoperta della normalità, ad una pacificazione con la lingua napoletana che passa attraverso la possibilità di un avvenire, la ricognizione della propria esistenza per mezzo del recupero della memoria.
Se la calata a Calais è una fuga che accoglie il germe di un’espiazione nei termini di un amore che prova a riconquistare un significante sereno nel sesso e nella quotidianità, l’ultima parte è una drammatica cavalcata verso il passato indispensabile per poter concepire l’idea di un futuro. Ma più che di una sceneggiatura volta alla ricomposizione di un quadro che in realtà non si frantuma mai del tutto, il merito è delle suggestioni attoriali da una parte della francese Marina Fois col suo repertorio di provinciale col cuore in inverno e dall’altra della clamorosa rentrée di Maria Luisa Santella, vero o presunto deus ex machina ma comunque d’una potenza devastante, e del consumato mestiere d’alta scuola partenopea di Gigio Morra.
È per certi versi un passo in avanti per Stefano Mordini dopo due prove non proprio entusiasmanti (Provincia meccanica e Acciaio) perché riesce a connettersi a con la tensione soggettiva del protagonista, malgrado non sappia rinunciare all’effettaccio di vecchia tendenza pulp come facile via al grottesco immaginario di un dramma che porta il dolore nascosto della sceneggiata nella fredda cornice di un’emigrazione criminale. Bellamente confezionato (la ricca fotografia di Matteo Cocco, il coerente montaggio di Jacopo Quadri, le irrequiete musiche di Peter Von Pohel), è un noir che, pur preferendo un approccio volontariamente squallido, forse non vuole ammettere fino in fondo la sua disperata vocazione al melodramma.
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