Regia di Yorgos Zois vedi scheda film
Continuano a pervenire segnali interessanti dalla nuova cinematografia greca i cui autori non esitano a sfoderare non solo contenuti efficaci e impregnati di una densità emotiva che contorna l’instabilità dell’uomo d’oggi, ma anche tesa a riscoprirne l’origine e la fonte radicata nella natura stessa dell’uomo già descritta migliaia di anni prima. Lungi dall’avvicinarsi a modalità di rappresentazione facilmente comprensibili dal pubblico di massa, qualche autore prova a destabilizzare oltre che i contenuti, anche la forma, con risultati altalenanti. Nel caso di Interruption, passato a Venezia 72 nella sezione Orizzonti grazie anche all’aiuto del Torino Film Lab, il regista Yorgos Zois riporta di prepotenza il teatro nel cinema attraverso la rilettura della tragedia greca rivoluzionandone profondamente la struttura. Che si tratti di una semplice deformazione o di una traduzione innovativa, sarà il pubblico a deciderlo e non potrà che esserne comunque disorientato. Basato sulla rappresentazione del mito tragico dell’Orestea di Eschilo, sul palco teatrale di Interruption si verifica in parte quello che è accaduto nel 2002 all’interno del teatro Dubrovka di Mosca, dove dei combattenti ceceni nel mezzo di uno spettacolo presero in ostaggio tutto il pubblico presente, il quale dapprima li identificò come parte della recita e poi costretti a sottostare alla loro violenza e a quella della task force russa che li liberò in un secondo momento. In Interruption non c’è traccia di riferimenti storici o politici anche simili, ma la situazione iniziale che si determina è identica. Le componenti che entrano in gioco sono ambiziose, lo scambio finzione-realtà si compie nella restituzione al pubblico (ad una parte di esso cioè la maggioranza inerme che assiste all’irruzione dei nuovi protagonisti che si sostituiscono ai veri attori) di una nuova realtà di fronte alla quale sono completamente impreparati. Si annulla il rapporto dello spettatore con lo spettacolo teatrale, basato sulla sua unicità e individualità emotiva che a differenza del cinema non implicherebbe un atteggiamento passivo e uniforme. Un altrettanto discorso meta cinematografico percorre le sequenze, interessa la massa, ostaggio di una cultura radicata e statica anche nelle sue modalità espressive, che viene chiamata a esprimere un giudizio immediato, tanto quanto interessa al regista vero e proprio deus ex machina che dentro lo schermo dirige nuovi e vecchi protagonisti come se potesse orientarne le scelte i gusti, le decisioni, rimettendosi poi alla fine all’esito raggiunto. La rappresentazione collettiva ha già offerto diversi esempi anche in questo genere, se vogliamo dai più classici drammi da camera al cinema più sontuoso e viscerale di Greenaway, mentre strutturalmente Interruption vuole rifarsi ad una dimensione massificata che si rivolge criticamente alla mancanza di attenzione e conoscenza del gusto comune corrente. La trama regge più che bene, i nuovi protagonisti recitano i passi dell’Orestea come se quelle parti aderissero in pieno alle loro personalità, mescolando violenza fisica e verbale con finzione e atteggiamenti concreti e coercitivi. L’operazione senza dubbio coinvolge, ma il trauma e la mortificazione che l’essenzialità del teatro subisce è molto forte, facendone scaturire una freddezza che indirizza chiaramente verso la sua tesi precostituita. Andrebbe premiato da un pubblico attento che purtroppo al cinema vede talvolta assottigliare sempre più le proprie fila.
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