Regia di Anita Rocha da Silveira vedi scheda film
Essere giovani a Barra da Tijuca. Fra i casermoni di periferia affacciati sul mare di Rio de Janeiro, il senso dell’infinito è un vuoto angosciante. È pieno dell’attesa di un futuro che sembra sempre sul punto di arrivare, e che invece rimane lontano, nascondendo le promesse, palesando solo le minacce. L’adolescenza è esistenza sulla soglia: un limite invisibile che potrebbe confinare con qualunque cosa, perfino con la morte. Bia ed i suoi coetanei vivono l’incognita di quella condizione con la morbosa curiosità che ci attira verso un film dell’orrore, dove la paura si veste del selvaggio e godereccio abito dell’istinto. Sangue e fantasmi. Cadaveri e peccati. È nero il fondo della coscienza, dove si sedimentano le emozioni di cui ci si vergogna, a cui non si riesce a dare un nome. Perfino il comunissimo dolore di Joao – quello conseguente all’abbandono da parte della sua ragazza – assume le sembianze di un incubo inconfessabile, da annegare tuffandolo nell’informe oceano della rete globale. Il nulla è il solo concetto in cui ci si possa specchiare: la dissoluzione è l’unico processo di cui sia possibile afferrare il significato, attraverso la perpetua, immutabile, definitiva concretezza di un corpo senza vita. La materia che si può vedere e toccare è inerte: è la bellezza che non passa, che rimane intatta nel ricordo, nelle icone affisse ad imperitura memoria nelle pagine dei social network, nelle favole che ci si racconta per esorcizzare laconsapevolezza della propria fragilità. Un occhio nero. Le bollicine dell’herpes sul labbro. Un’immagine che è destinata inesorabilmente a trasformarsi, sfuggendo al controllo, rischiando di diventare la macabra maschera di cui tutti parlano con disgusto. C’è un misterioso serial killer che si aggira in quei luoghi, mietendo le sue vittime tra ragazzi che, la notte, vanno nei locali a divertirsi, oppure si riuniscono per strada per manifestare il proprio malcontento. I resti li ritrovano per caso, anche diversi giorni dopo, buttati in mezzo alle erbacce e ai rifiuti. È troppo facile andarsene. Troppo difficile riconoscere il pericolo. Ci si guarda intorno e non si capisce a che punto siamo. Sarà per questo che ci si rifugia nell’immaginazione, anche quella più squallida e terribile, che fa tremare i polsi, ma che comunque fa ritornare i riferimenti dell’infanzia, con i mostri, i lupi cattivi, i nemici che avevano un volto ben preciso, e che consentivano di fantasticarci su. Ora l’ebbrezza è solo fumo, è il vapore di una perversione incerta, che, però, deve sforzarsi di apparire affidabile, per poter offrire un appiglio sicuro. Può anche chiamarsi religione, purché assuma l’aspetto di una bella ragazza dal trucco vistoso e vestita di colori sgargianti: una bambola strappata al lussureggiante mondo dei cartoni, dei videoclip, delle leggende glassate di zucchero che fondono l’espressionismo della pop art con le sdolcinature delle fiction e del karaoke. Si canta insieme, per cercare di crederci. Perché la moda serva davvero a creare un’unione solida. Un gruppo da cui gli adulti resteranno fuori, non possedendo la parole d’ordine per entrare in un regno in cui la finzione deve reggere, a tutti i costi, senza subire interferenze, perché fornisce l’unica chiave di lettura della realtà. Questo film – il cui titolo riprende quello di Please Kill Me, storica retrospettiva sul fenomeno punk – interpreta il cupio dissolvi delle nuove generazioni come uno sbando anonimo, senza veri idoli – né chimici, né politici, né musicali - la cui poesia è funerea in mancanza di altre suggestioni. La finta allegria di un party è una vernice idrosolubile che la prima pioggia, come un pianto, lava via.
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