Regia di Hadar Morag vedi scheda film
Il pensiero rallenta. Il ritmo è un insensato rumore che si ripete. Meccanico come un respiro affannoso. La macchina macina polvere. Il corpo trema, nel trattenere quel moto traballante, che pulsa di vita, ma che non riesce a comunicare. Il silenzio, però, è solo un eccipiente. È la foschia mentale in cui si diluisce il nulla disumanizzato delle esistenze che hanno perso la direzione. Un giovane musulmano che lavora in un panificio ebraico. Che vorrebbe amare, ma non sa chi, e non sa come. Che ha il padre in carcere, e, a casa, una madre di cui si vergogna. Muhamad vuole vivere fino in fondo il suo smarrimento. Si rifugia nell’inerzia, nell’inespressività, per annegarvi gli istinti peggiori, quelli che vengono a galla quando la ragione viene meno, per semplice mancanza di appigli. Si può inforcare una bicicletta e cercare di correre più veloci di quelle tentazioni oscure, imparentate con la solitudine, ma si finisce sempre per essere raggiunti, sbattuti al suolo, derisi per la propria mancanza di volontà. Essere giovani, in Israele, può equivalere ad un perenne stato di guerra, che richiede una lotta continua, per difendere ciò che si è, evitando che l’identità di origine venga sopraffatta da ciò che si vorrebbe diventare. La pacificazione interiore è un obiettivo difficile, che induce un senso di impotenza, e propone la rassegnazione come un rifugio dall’incomprensibile violenza di un mondo diviso. Ci sono i conflitti di religione. Ci sono i divari economici e sociali. E poi c’è un’inquietante idea di libertà, che serpeggia nell’ombra, tra le schiere dei diversi, e che aggiunge, all’inferno circostante, un ulteriore sudicio anfratto. Lì dentro si può fare del male, di nascosto, per puro spirito di ribellione, per trovare uno sfogo al dolore di sentirsi nessuno. Affilare coltelli. Infliggere e subire tocchi proibiti. Tagliare o accarezzare: due modi antitetici per rivendicare la propria integrità, la consistenza fisica ed emotiva di un essere condannato all’anonimato. Muhamad vede nella carne la sostanza vivente che deve farsi avanti, magari rischiando, per non scomparire. La lama emette scintille, quando viene arrotata: uno sprazzo di luce che imita lo zampillio del sangue, un fuoco d’artificio sparato per celebrare un sacrificio rituale. Un fulgido bagliore che illumina il grigiore dell’abbandono. Muhamad, rinunciando, fuggendo, umiliandosi, si incammina volontariamente lungo il calvario che dall’emarginazione conduce al martirio. L’isolamento è il ritiro preparatorio di chi intende immolarsi. Strada facendo, non mancherà di guardarsi intorno per imparare la sofferenza, che è il lato vivente della morte. Il film di Hadar Morag arranca, visibilmente, dietro questa immagine così affranta, segnata dallo stanco delirio di chi guarda con noia alle proprie ossessioni. Forse si immedesima troppo nella negatività, che finisce per annientare persino se stessa, stendendo su tutto un pietoso velo che toglie aria e colore anche alla disperazione. La narrazione si ferma, diventa afasica, procede per inerzia dimenticando che, comunque sia, occorre continuare a dire, istante dopo istante, anche quando non c’è niente di cui parlare. Questa storia, orfana anch’essa del suo Creatore, soffoca il grido rivolto a chi l’ha messa in croce. Ma noi, quella voce, abbiamo tanto bisogno di udirla.
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