Regia di Gabriel Mascaro vedi scheda film
La vaquejada. Uno sport tradizionale brasiliano, il cui scopo è atterrare un toro stando a cavallo, e tirandolo per la coda. La famiglia della piccola Cacà vive di questo. Porta la sua mandria in giro per il Paese, a bordo di un camion. Una piccola carovana di cowboy, in viaggio attraverso la noia. Uomini e bestie ugualmente assaliti dal tedio, dai sussulti di vita che finiscono per rotolarsi dentro la polvere. Cacà desidera un cavallo, che sua madre non potrà mai comprarle. Neanche Zé e Iremar, i due maschi del gruppo, sembrano in grado di farlo. Anche perché hanno perso per strada la loro “virilità”: sono due individui solitari e frustrati, l’uno dedito alle riviste porno, l’altro al taglio e cucito. La donna è un sogno distante, racchiuso in una foto o un manichino: un modello di bellezza, però ridotto ad un oggetto inanimato. La natura, intorno, conserva le sue forme plastiche, floride senza grazia, piene di una bellezza data in pasto alla volgarità dei riti ancestrali, allo squallore della primitività. Manca l’ambizione di essere diversi, di diventare migliori, di sfuggire alla propria condanna. I capelli di Galega resteranno ricci. Iremar non cambierà la sua firma. Zé non si cercherà una compagna. Si prende ciò che viene, senza vera passione, con la supina indifferenza di chi non ha aspettative. Si accetta la novità richiamandosi al vecchio, all’istinto che dà e riceve, preferendo, alla scelta consapevole, il semplice abbandono all’automatismo dei sensi. La stessa fantasia è plasmata nella brutale consistenza della sostanza animale (il costume della ballerina è ornato di code di bue) a cui cerca di fornire una nobile copertura (un profumo raffinato usato per camuffare l’odore di stalla). L’idillio è una rudimentale trasfigurazione della carne, che si nobilita nel semplice gesto di nascondersi dietro un velo, nel tingersi di penombra, nell’ammantarsi di suggestioni crepuscolari. Poesia è il sottile sfioramento di una carezza silenziosa. Le parole, sullo sfondo del nulla, non servono a raccontare. Forse sopraggiungono solo per scacciare via i pochi accenni di pensieri. In questo film non si può cercare il percorso di una storia, perché il suo vagabondare è quello dei nomadi per forza e per abitudine, che si spostano non per avanzare, ma solo per non morire. Il loro moto perpetuo ha perso la memoria della sua spinta iniziale. E procede, al ritmo di una stanchezza che non si consuma. In questa storia, il tutto è vano è un principio che manca di fremito intellettuale, perché è un veleno imprigionato nella carne, che scalpita e non crea. Non c’è niente di cui parlare. E la musica, sommessa, scandisce un battito fine a se stesso. I rumori degli zoccoli, il coro dei muggiti, la delirante cantilena del banditore d’asta sono gli echi di un estenuante, infruttuoso macinio.
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