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Free in Deed

Regia di Jake Mahaffy vedi scheda film

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La recensione su Free in Deed

di OGM
4 stelle

Smodatamente. Una superstizione, travestita da fede, martella il concetto. Dio è salvezza, Dio è guarigione. Pregando ci si affranca da ogni male. Ma bisogna insistere, fino al parossismo. La rivelazione è un momento di estasi preceduto da un attacco di isteria, la furia, ottusa e perversa, è il segno esteriore della potenza taumaturgica. In un chiesa pentecostale di Memphis ci si incontra per gridare al cielo le proprie invocazioni. Il pastore invita ad alzare le mani e la voce per proclamare la propria euforica adesione alla sublime gloria del Signore. Più forte è il suono, più incalzante è il ritmo, maggiori saranno le probabilità di essere esauditi. Abe è l’apostolo che opera i miracoli, non prima, però, di essersi prostrato dinnanzi al Padre, per ribadire la propria umile condizione di peccatore redento, di uomo che è caduto nell’errore, ma non sbaglierà mai più. Il progetto di vita  prescritto dal Vangelo prevede di andare sempre avanti, lasciandosi il passato alle spalle. Eppure  il discorso, in questa storia, è quanto mai circolare, imprigionato nella cieca convinzione che basti una rituale perseveranza perché la tanto agognata magia si compia: che una donna sconfigga il cancro, che un bambino autistico diventi normale. Melva è la madre del piccolo Benny: dopo essere stata abbandonata dal compagno, si ritrova ad allevarlo da sola, facendosi carico dei suoi problemi cognitvi e comportamentali, e dovendo badare anche alla primogenita. Benny è ingovernabile: a tratti viene colto da crisi, si mette ad urlare e a scalciare, a tal punto che nessuno riesce a calmarlo. Per questo motivo viene espulso dall’asilo. Per lo stesso motivo assume dosi sempre più massicce di psicofarmaci, e rischia di essere rinchiuso in un istituto protetto. Per scongiurare il peggio, Melva si lascia persuadere ad affidarlo alle cure di Abe, che lo sottopone regolarmente a strani esorcismi, con connotati in parte violenti, oltre che incapaci di produrre qualsivoglia miglioramento. Questa assurdità prosegue, fra i canti dei fedeli, senza che nulla cambi. L’evoluzione è assente: nella situazione raccontata, esattamente come nella sua rappresentazione cinematografica. Gli incontri liturgici si ripetono fino alla noia, tutti ugualmente percorsi da nevrosi mistiche spettacolarizzate, tutti ugualmente ridotti a messe in scena prive di un epilogo chiarificatore. Il film di Jake Mahaffy si alimenta a piene mani della smaniosa inerzia di chi non si arrende alla realtà, e continua a fortissimamente chiedere e desiderare, scambiando per pratica spirituale il futile, miope esercizio dell’illusione. L’obiettivo rimane ad assistere, impassibile, alla fissità di questa situazione, che non avanza di un  passo, eppure si agita come un’ossessa, come se il prodigio fosse lì lì per compiersi. A nulla serve che niente accada: il racconto non batte ciglio, non aggiusta il tiro, e continua a rivolgere, a quell’immagine stagnante, lo stesso indifferente sguardo da osservatore distaccato, che non si stanca e non reagisce alla frustrazione di non vedere mai alcunché di nuovo. Si direbbe un paziente approccio documentaristico, che tiene duro, resistendo al tedio, per solidarietà con i protagonisti di tanta sventura, ai quali non rimane altro che la scelta disperata di ritentare all’infinito. Si potrebbe forse, da parte nostra, stare al gioco, partecipando alla delirante e spasmodica ostinazione della povera gente che non sa – è proprio il caso di dirlo – dove sbattere le testa. In tal caso ci piacerebbe, però, perlomeno, cogliere, in questa maniacale manifestazione  del dolore, l’autentica, immensa rabbia di chi soffre. Invece qui la (presunta) potenza delle emozioni è solo un registro tecnico, l’impostazione di un certo atteggiamento recitativo, che sembra votato agli eccessi solo per il gusto espressionistico di esasperare i toni.  La forma si impenna, ma la sostanza rimane dov’è: in fondo al sedimento di un’idea che poteva risultare se non originale, almeno indovinata, se solo fosse stata libera di scorrazzare per le ariose vie del mondo.  Invece è stata soffocata da un manierismo, con velleità iperrealiste, che si impone per puro esibizionismo. E che pensa di farsi melodia semplicemente applaudendo a viva forza,   fino a spellarsi le mani.    

 

David Harewood

Free in Deed (2015): David Harewood

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