Regia di Jake Mahaffy vedi scheda film
I pericoli della fede li aveva già contemplati Cristian Mungiu in Oltre le colline; più che i pericoli si tratta delle ingenuità di un modo di pensare che annulla necessariamente la problematicità, le contingenze, i fatti più concreti e fisicamente rilevanti. In Free In Deed Jake Mahaffy non ha intenzione di raccontare una storia, non è tra le sue intenzioni principali. Lo scopo, almeno nella prima metà del film, alquanto dispersiva, è creare un ambiente. Mahaffy saggiamente non si sbilancia né da un lato né dall’altro della moralità e della fede, non giudica mai, ci illustra le svariate cerimonie a cui i fedeli partecipano e le “performance” divinatorie di Abe come modalità di presentazione dei personaggi, con una struttura narrativa abbastanza sgrammaticata (in senso buono) da far fare un po’ fatica allo spettatore prima che “entri” nel film.
Quando però i toni si fanno più classici, e lo snodo fondamentale della trama viene disciolto – un ragazzino con una grave malattia degenerativa viene portato al cospetto del miracolante leader – il film riesce a mantenere lo stesso rigore formale, senza sfociare nell’eccessivamente lacrimoso (o nell’eccessivamente tradizionalista), ma mettendo addosso allo spettatore un’angoscia insolita che porta a perdere le proprie certezze e le proprie direzioni: la sanità non riesce a seguire regolarmente la malattia, la fede può solo creare l’illusione della guarigione. Senza lasciare appigli, e concludendo il lungometraggio con un urlo spezzato che difficilmente si rimuove dalla memoria, Jake Mahaffy ha prodotto un’opera di notevole fattura e di straziante tragicità, in cui ad una regia che “non si vede” si affianca anche una ottima conoscenza tecnica del mezzo filmico, finanche della storia del cinema, poiché simili dilemmi con degenerazioni tragiche ricordano non con troppi sforzi Elmer Gantry di Richard Brooks, 1960.
In concorso Orizzonti a Venezia 72.
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