Regia di Alberto Caviglia vedi scheda film
C’è un’idea, in Pecore in erba. Narrare per paradosso la storia di un ipotetico estremista di destra, antisemita 2.0, raccontandolo come un eroe. La forma è quella del mockumentary - abitato per gran parte da un (lungo, lunghissimo) speciale tv in cui si santifica quest’uomo che non ha avuto paura di odiare. La satira è verso un mondo - e un sistema mediatico - che non è in grado di discorrere di etica e maiali, producendo automatico consenso con bassa retorica: si susseguono gli esperti, si sviluppa un’opinione conforme, si sciorinano luoghi comuni sul popolo ebraico, si procede alla beatificazione di massa del santo xenofobo. Ma questa forma ironica d’inversione (anche ardita, considerando l’analfabetismo visuale del nostro paese) fallisce proprio nei modi dell’umorismo. Che è quello tipico del web, dei tormentoni virali, di Magalli come oggetto di culto: un’ironia vaga e indifferente, di cinismo diffuso su tutto e dunque su niente, che riduce ogni cosa a linguaggio (pensate al ossessione social «E allora, i marò?») e a calembour scollato dal vero. Così a tutti è concesso lo stesso innocuo trattamento da barzelletta. Non c’è distinguo, non c’è ferocia o sfumatura. E, dunque, non c’è politica, non c’è critica: c’è solo la ricerca del riso scioccherello per il ribaltamento automatico, per lo stereotipo mutato di segno. Così l’ambita satira sociale s’inabissa in una palude ingenua e qualunquista, che dice molto - suo malgrado soprattutto - del mondo di oggi.
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