Regia di Alberto Caviglia vedi scheda film
Un film contro l’antisemitismo? Per carità. Lungi dalle intenzioni dell’autore – così sembra – prendere posizione, schierarsi, attaccare, difendere. Forse è tempo che il cinema di impegno smetta di essere cinema di parte ed inizi a puntare il dito, senza secondi fini, contro quello che, semplicemente, così non va. Il difetto non ha colore. La contraddizione è un fatto puramente logico, che appartiene alla categoria universale dell’irragionevolezza, sottraendosi, platealmente, al pretestuoso balletto dei punti di vista. I problemi nascono, infatti, tutti da lì; da quella impostazione mentale secondo cui tutto è relativo. Un principio di per sé incompatibile con la ferrea distinzione tra bene e male, che in alcune circostanze – ma non in generale - è ritenuta inoppugnabile. È sbagliato essere razzisti. È giusto essere tolleranti. I contorni sfumano, però, quando si tratta di affrontare altre, ben più sofisticate questioni morali, dove, in nome della libertà, è consentito affermare e negare ciò che si vuole (lasciando, magari, che sia la moda a decidere l’atteggiamento prevalente). L’audace provocazione messa in atto da Alberto Caviglia consiste proprio nell’estendere questa indeterminatezza agli ambiti in cui il dubbio è tabù, e la contestazione è un crimine contro l’umanità. Leonardo Zuliani, prima bambino e poi ragazzo, cresce con una ossessiva, feroce avversione nei confronti degli ebrei. Per questo motivo viene condannato, emarginato, trattato come un individuo deviato, da evitare e da sottoporre a cure psichiatriche. Solo a posteriori, dopo la sua misteriosa scomparsa, un’immaginaria evoluzione storica – dagli anni novanta ai giorni nostri – arriverà a riabilitarne la figura, facendone un martire, un genio incompreso, un eroe-artista che ha pagato a caro prezzo la coerenza ed il coraggio delle proprie idee. Leonardo non è che l’ennesima vittima dell’odio: di un odio che, per il senso comune, non sarebbe in realtà ingiustificato, in quanto diretto contro chi odia. Un odio a posteriori che si proclama migliore dell’odio a priori. Un odio che sa argomentare, contro un odio che nasce dalle viscere. La prospettiva di un mondo rovesciato – in cui gli antisemiti sono i perseguitati – ha messo a nudo il paradosso di fondo. La tesi dell’accusa si morde la coda: e l’infernale cortocircuito, una volta innescato, continua a girare, stringendo fra le proprie spire anche alcuni musulmani che, per vari motivi, sono indotti a odiare chi odia i loro nemici religiosi. L’assurdo ha preso una piega davvero volgare, di quelle che fanno rabbrividire di disgusto e di imbarazzo. La visione di questo film è spietatamente indigesta, e corrode l’anima in maniera rozza, forte di un politicamente scorretto allo stato puro, che non si trincera, pudicamente, dietro il solito paravento dell’ironia. Pecore in erba è una sferzante black comedy del pregiudizio, che – attraverso l’indovinato impianto del mockumentary ispirato ai talk show televisivi – ci sbatte in faccia il radicalismo dissacrante del si può ridere di tutto, della satira che svolge fino in fondo la sua funzione rivoluzionaria: quella di smuovere le coscienze ferendo la sensibilità individuale di tutti, indiscriminatamente, dei favorevoli e dei contrari, di maggioranza e minoranza, di vincitori e vinti, di chi subisce il dileggio e di chi vi assiste. Un’azione spiazzante e livellatrice che non risparmia nessuno, e che non può lasciare indifferenti; una voce stonata che si fa più rabbiosa quando viene zittita, e che da cattiva riesce a diventare santa: una voce che, in tempi recenti, per un attimo, ha saputo miracolosamente unire il mondo intero sotto un’unica bandiera. Je suis Charlie.
Pecore in erba (2015): scena
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