Regia di Renato De Maria vedi scheda film
Qualcuno forse ricorda ancora i loro nomi, anche se sono da tempo scomparsi dalle prime pagine. Erano banditi. Sparavano, rapinavano, hanno pure ucciso. Sono stati catturati, condannati, ed hanno scontato la loro pena. Prima e dopo di ciò sono stati uomini: ragazzi che giocavano e facevano progetti, e che un giorno si sono innamorati. In questo documentario ci spiegano perché non hanno potuto diventare normali. Danno la colpa chi alla guerra, chi alle tensioni sociali, chi, semplicemente, ad una strana vocazione. Nell’Italia degli anni quaranta e cinquanta, sembrava che quella fosse l’unica forma di eroismo possibile. Per certi versi, la si poteva quasi scambiare per la naturale continuazione della lotta della Resistenza, di cui condivideva non certo i fini – ormai decaduti per motivi storici – ma di cui, comunque, sembrava aver ereditato gli strumenti e le tecniche di combattimento. I sei personaggi di questa storia, che si raccontano in prima persona - attraverso i volti e le voci di altrettanti brillanti interpreti - non cercano pretesti, né alibi. Tutt’al più intendono testimoniare l’inevitabilità di una scelta sbagliata, lucidamente criminale, saldamente intrecciata con il loro essere fuori dai canoni, e immersi in una rabbia trasmessa da un passato ancora scottante, ancora presente come fumo sulle macerie. Anziché indirizzarsi verso la ricostruzione, il loro pensiero ha preferito prendere spunto da tutto ciò che era stato distrutto, dalla volontà di rialzare la testa, prima ancora che rimboccarsi le maniche. Il mito è risorgere per miracolo, senza faticare, come si addice agli eroi romantici. È riuscire a realizzare l’azione come immediata emanazione del sogno, rischiando e magari soffrendo, ma senza mai darsi per vinti. La forza, in questo caso, sta tutta nella coerenza, che odora di cinismo, mentre diffonde un vago sentore di fede. Degli assalti, degli omicidi, delle fughe, del carcere si possono rievocare i pochi fatti, scarni e duri come i fotogrammi tratti da un fumetto, perché è così che appaiono a chi li ha vissuti da protagonista: istantanee stilizzate, sbiadite, lavate nel sangue freddo, ben lontane dall’affollarsi delle emozioni confuse di chi guarda, subisce, non comprende. Ezio, Horst, Luciano D., Luciano L., Paolo e Pietro parlano, soli, in piedi su uno sfondo in ombra, immortalati nella loro eterna e livida giovinezza. Intanto, per noi, proiettati in uno spazio fuori dal tempo, scorrono le convulse immagini della cronaca, vera o inventata, vecchia o nuova, dei telegiornali e dei film, in cui il dinamismo è corale, come nella frenesia degli inseguimenti, nelle manifestazioni di piazza, nelle esplosioni di panico collettivo. Il terrore è un fenomeno asimmetrico: da una parte c’è il silenzio dei suoi solitari artefici, dall’altra il grido disperato delle vittime, le urla di spavento degli inermi testimoni. La docufiction di Renato De Maria ripropone questo contrasto in un collage narrativo che procede in maniera ragionata, per capitoli biografici, in un teatro che esordisce chiedendo l’ascolto senza il supporto della visione, e subito dopo interrompe il corso dell’immaginazione con lo spettacolo psichedelico di una realtà in preda all’agitazione, alla paura, al disorientamento. Italian Gangsters si rivolge a noi con propositi più rievocativi che didascalici. Ma i suoi toni, potenzialmente nostalgici, uniscono alla ruvida poeticità della memoria il monito che, da un’epoca non troppo lontana, ci esorta a non dimenticare, oggi, in mezzo ai grandi drammi dell’umanità, l’imperscrutabile singolarità del Male.
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