Regia di Frederick Wiseman vedi scheda film
Una passeggiata nel quartiere Jackson Heights, della durata di qualche giorno. Dì e notte si alternano, e si susseguono giorno dopo giorno le riunioni, le iniziative, ma anche le chiacchiere quotidiane, di tutta una comunità che è la più poliglotta e diversificata (etnicamente) al mondo – siamo dalle parti di 167 diversi idiomi parlati. Frederick Wiseman ci prende per mano e ci fa da traghettatore, saltellando da un incrocio all’altro e fermandosi quando attratto da un dettaglio, da un’insegna, o da delle persone. Dunque entra in qualche negozio e ci rende partecipi della crisi dei piccoli lavoratori, costretti a fare concorrenza a un negozio della catena Gap aperto dietro l’angolo; dopodiché si infiltra nelle riunioni degli immigrati in cui ognuno se vuole racconta le proprie drammatiche esperienze al confine o quelle per farsi dare uno stipendio corretto; tra le altre cose, contempla invisibile gli incontri della comunità LGBT, le sue manifestazioni e le sue lamentele contro le discriminazioni; e infine segue i festeggiamenti di tifosi della nazionale colombiana, una festa di compleanno (molto divertente), un confronto fra due anziane signore, una delle quali ritiene che i soldi possono comprare tutto, anche l’amicizia, e tanti altri piccoli accadimenti che Wiseman prende come spunto per riflettere sulla diversità.
Infatti la comunità di Jackson Heights diventa una sintesi dell’intera umanità, nelle sue più disparate forme/aspetti/condizioni di vita. Wiseman si sofferma sui volti tramite numerosissimi primi piani, e rimane implicitamente affascinato dalle capacità cooperative di persone sempre sul punto di perdere tutto, e sempre intenzionate a risollevarsi spesso con il sorriso sul volto, e qualche illusione dimenticata (l’anziana che scopre che tutti gli attori che adorava da giovane si erano rivelati omosessuali). La regia invisibile del regista americano rende tutto privo di moralismi, e non è mai invadente nei confronti dei drammi dei singoli, perseguiti con passione e interesse. E alla fine tre ore e dieci passano in un lampo quando le immagini sanno ricostruirsi con tanta grazia nel lavoro di montaggio (ci sono certi raccordi, tra le varie sequenze, indimenticabili), e viene data un’idea di umanità che è solo quella che è, e che il grande Cinema ci ha fatto esperire finalmente per intero, con Wiseman che alla fine con la sua cinepresa va sempre più indietro, sempre più in alto, finché non si intravedono i palazzoni di Manhattan, e si ristabiliscono le distanze.
Fuori concorso a Venezia 72, praticamente un capolavoro.
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