Regia di Tsai Ming-liang vedi scheda film
Duetto, Tsai Ming-liang e Lee Kang-Sheng. Ancora una volta, il microcosmo del cinema di Tsai dentro una casa che “piange”, come in The Hole, come in Stray Dogs.
Na ri xiavu è un lungometraggio che ha la forma di una conversazione, ma assume presto i toni della confessione. Tsai e Lee chiaccherano amabilmente come non hanno mai fatto, e Tsai commosso ha paura che si possa pensare che stia recitando. Annuncia che sta per morire, che sente la fine vicina, e che si è fatto conquistare dall’accidia e dall’inerzia, non sa se fare o no altri film. Lee parla poco, solo quando Tsai insiste, e lascia trasparire una serie di commenti spesso ilari che gettano luce sull’estrema tenerezza del rapporto fra i due, il primo – Tsai – omosessuale ma non attratto da Lee quanto piuttosto interessato a proteggerlo come si trattasse di un parente; il secondo – Lee – vicinissimo quasi sempre all’amico regista nonostante possegga una sua vita familiare privata. Facendosi prendere dagli argomenti che vengono, spontaneamente, tra un silenzio imbarazzante e un altro, Tsai compie un piccolo miracolo che si mantiene celato in tutta la conversazione, e sbalza (in)naturalmente con lo scorrere – più veloce dell’apparenza – dei minuti: riuscire a creare una spontaneità – “un film che come un fiore sboccia da solo”, ha detto il regista alla presentazione di Na ri xiavu fuori concorso a Venezia 72 – da una situazione forzata e macchinosa come quella di sedersi in una stanza vuota con due comode poltrone e due finestre da cui si può osservare un verde esterno accecante, di fronte a una cinepresa e ad un’intera troupe che sta ad ascoltare. Tsai “accoglie” tutti nel suo salotto improvvisato per scavare dentro di sé in un attento esame di autocoscienza (e autoironia).
Rispolverando vecchi ricordi – a noi noti tramite la sua filmogafia - che generano commozione anche in noi che non li abbiamo vissuti come i due uomini, e sfiorando il nonsense quando la discussione degenera su argomenti davvero di poco conto, Tsai racconta il miracolo della comunicazione in un mondo che, qual era quello da lui rappresentato, di comunicazione fra gli uomini non ne concede mai, se non tramite il sentimento, se non tramite l’arte e la catarsi, l’illusione. Ciò che ci circonda potrebbe in realtà non esistere, ma incorniciando il suo mondo in un quadro di immensa bellezza (“ma secondo te quelle piante ci stanno ascoltando?”), semplice e scarno eppure intimo e familiare, Tsai decide comunque di rivelare la capacità miracolosa super homines del Cinema, che sa raccontare pur riflettendosi su se stesso – il corpo e l’anima del regista in primo piano – la possibilità dell’amore fra gli uomini. Un film di una sincerità disarmante, che mette a nudo lo spettatore anche di fronte allo scorrere del tempo e alla concezione dello spazio, che l’immagine fissa ipnotica sembra irrealmente rielaborare nei diversi colori in cui siamo in grado di osservare la stanza, considerando anche il passare dei minuti e la sempre cangiante illuminazione del sole – si potrebbe arrivare a definire Na ri xiavu un film “impressionista”.
Epica intimistica e straziante, su un regista che dichiara, come pochi altri sono in grado di fare, che il Cinema è per lui innanzitutto una necessità fisiologica, e che se il film non può venir fuori da solo, è sempre meglio stare zitti, ché tutto ciò che è venuto prima rimane sempre nella meraviglia del ricordo, e non è detto scompaia.
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