Regia di Davis Guggenheim vedi scheda film
Cosa si può dire di una ragazzina pakistana di 11 anni che sceglie di denunciare l’integralismo religioso e di sfidare i talebani, non solo studiando e andando contro le regole della legge sacra, ma addirittura tenendo un blog letto in tutto il mondo, e che per questo si fa quasi uccidere, salvo poi sopravvivere e diventare ambasciatrice della libertà di pensiero e di parola? A una così dai il Nobel per la pace, come minimo, e speri che di ragazzine come lei sia pieno il mondo. A una così, che si chiama Malala Yousafzai, che il Nobel per la pace lo ha vinto per davvero nel 2014, a 17 anni, riconosci tutto il rispetto e l’ammirazione che merita. Ma se per caso ti capita di vederla in un documentario sulla sua esperienza, con il racconto animato dell’origine gloriosa del suo nome, con le scene familiari fintamente naturali e una costruzione drammatica votata all’agiografico, allora scopri che, forse, di lei e del suo mondo non ti interessa poi così tanto. La colpa, sia chiaro, non è della diretta interessata, che è una forza della natura, ma di Davis Guggenheim, che sceglie senza vergogna di celebrare Malala ignorando quanto a volte le immagini possano essere ingiuste e spietate. Malala è un santino in vita, o peggio ancora una partitura di pianola a cui qualcuno ha appiccicato la storia vera e per fortuna a lieto fine di un’eroina che avrebbe meritato ben altro ritratto.
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