Regia di Sergei Loznitsa vedi scheda film
Il canto del cigno dell’Unione Sovietica.
Dopo Gorbaciov venne Elstin. In che modo ce lo racconta Sergei Loznitsa con l’ottimo Sobythie, una raccolta di materiali di repertorio che vede il popolo riversarsi sulla piazza di Leningrado (in generale sulle strade dell’attuale San Pietroburgo) di volta in volta a protestare contro un governo che sembrava gestire la cosa pubblica per i fatti propri e non con il consenso del suddetto. A Loznitsa interessano proprio quelle persone comuni, impegnate in cori, costruzioni di barriere, salvaguardia del diritto di associazione e di creare gruppi, ad accanirsi contro la tirrania. Il motivo che spacca in due questo popolo è quello della scelta se seguire più o meno le modalità della Perestrojka, se convenisse un avvicinamento all’Europa e al capitalismo, o se invece bisognasse trovare un compromesso che non smentisse una verità storica passata, certo, ma di un certo peso. Elstin, è la Storia a parlare, riuscì a trionfare in mezzo a questo putiferio, ponendosi a capo di uno Stato da riformare quasi del tutto, in modo da debellare definitivamente le istituzioni della vecchia U.R.S.S. e issare la nuova bandiera tricolore della Federazione Russa.
Si nota subito che Loznitsa non ha scelto rulli casuali nel 2015, per interrogarsi su un evento storico che ha ancora oggi conseguenze tangibili. I filmati sono realizzati da evidenti cameraman professionisti, che hanno un certo piglio autoriale in questa voglia di documentare quanto più possibile di quei giorni che cambiarono la Storia. Lo sguardo di questi cameraman e infine del regista ucraino Loznitsa cade proprio sui volti di questi uomini, a interrogarsi se essi effettivamente avvertano la portata dell’Evento del titolo, e quale destino si aspettino proprio da questo evento. Per quanto anacronistica, la domanda ha nel film una modalità di formulazione ben precisa, leitmotiv di questi materiali di repertorio e quindi interesse nodale per la ricerca di Loznitsa. Spesso gli uomini e le donne che sbucano all’interno dell’inquadratura guardano direttamente la cinepresa. Pur in assenza di voce fuori campo e di interviste – à la Wiseman – la macchina da presa non è invisibile, ma è invece invadente, avida di vedere, quasi golosa. È una cinepresa che carica su di sé la responsabilità di ciò che osserva, un occhio consapevole e attento, dunque moralmente ma soprattuto fisicamente partecipe. Lo stesso occhio che trasforma la piazza stracolma di Leningrado in un prato di teste, con tanti fiori che sbocciano quando in un momento di silenzio tutti quanti alzano la mano.
Andando poi a configurare il ruolo prettamente estetico di Sobythie soprattutto nel contesto del cinema est-europeo contemporaneo, guardando le scene delle marce non si può non pensare al (in)dimenticato Evening Sacrifice di Aleksandr Sokurov. La domanda è la stessa in entrambi i lavori: dove stanno andando queste persone? La loro è una vittoria o, dando un’occhiata più lungimirante, un sacrificio?
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