Regia di Yann Arthus-Bertrand vedi scheda film
Proiettato simultaneamente alle Nazioni Unite, nella sala dell’Assemblea Generale in occasione del 70esimo anniversario dell’ONU, alla Mostra del Cinema di Venezia e in oltre 500 sale francesi il 12 settembre 2015, giorno in cui a Parigi si festeggiava la fête de l'Humanité.
Distribuito con il patrocinio dell’UNESCO e con l’aiuto della Bettencourt – Schueller foundation. Su youtube è stata pubblicata una versione più estesa rispetto a quella cinematografica, oltre che numerosi extra. È stato inoltre distribuito gratuitamente a scuole, università e ONG, per favorire il dibattito.
Realizzato in tre anni, con il coinvolgimento di più di duemila persone provenienti da oltre 60 paesi, intervistate da una troupe di venti persone sulla base di 40 domande in ordine crescente per importanza, da un semplice “Come stai?” fino ai grandi interrogativi dell’Uomo, passando per il racconto delle proprie esperienze personali.
Diretto dal fotografo, regista, ambasciatore UNEP (Il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) Yann Arthus – Bertrand, fondatore della Goodplanet foundation, che si occupa di sensibilizzare riguardo le problematiche ambientali e supporta numerose iniziative nel campo dello sviluppo sostenibile.
Questo sarebbe Human, se volessimo attenerci a semplici dati analitici, ma andremmo in questo caso contro le reali intenzioni del fotografo francese, il quale ha dichiarato: “non abbiamo voluto dare un’impronta scientifica, a noi interessava l’emozione e il coinvolgimento dello spettatore”.
Proprio questo si respira in ogni singolo fotogramma, non di un film intellettuale (nell’accezione negativa del termine) ma umano, diretto, che colpisce in profondità, che tocca luoghi inesplorati del nostro inconscio e non solo gli strati superficiali del nostro intelletto.
Ci troviamo di fronte a un affresco implacabile dell’umanità, che è di natura dualistica. Il Bene e il Male, la Luce e l’Oscurità. “ L’essenza stessa della natura umana è riassunta da una donna israeliana che in una delle interviste dice: < Si, io sono una donna israeliana, ma sono anche la donna palestinese pronta a farsi esplodere all’interno di una scuola - sono anche il soldato tedesco che porta a morire nelle camere a gas - sono anche il soldato israeliano che uccide un bambino - sono la donna stuprata, ma anche lo stupratore > Questo vuol dire che tutti noi siamo fatti di Luce e Oscurità, sta a noi scegliere quale lato far emergere.”
Già con queste parole si intuisce la grande influenza, tra gli altri, di Schopenhauer, che ricorre velatamente per tutto il film. Il pensatore tedesco ne “Il mondo come volontà e rappresentazione” scrive: “Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, forse non verrebbe in mente a nessuno di chiedersi perché il mondo esista e sia fatto così com’è fatto”, che spiega perfettamente il concetto di uomo come “animale metafisico”, cioè che protende per natura a interrogarsi sul senso dell’esistenza e sulle cause ultime di essa, idea che prende forma nei volti e nelle parole delle persone intervistate - tanto che sul tema dell’amore un uomo si esprime in termini quasi identici all’idea schopenhaueriana dell’amore come accoppiamento. Le persone che Bertrand e i suoi collaboratori ci hanno messo davanti, attraverso un processo – potremmo dire – psicoanalitico, non sono altro che delle “tensioni metafisiche” verso una conoscenza più completa. Gli intervistati dopo una trentina di domande raggiungono per forza di cose una profondità di pensiero o perlomeno una sincerità, un coinvolgimento non indifferente, il che è assai visibile nei loro volti provati.
Si tratta anche di persone analfabete, come ci tiene a sottolineare il regista. Questo perché nessuno è migliore o peggiore di nessun altro a prescindere, ogni essere umano ha una sua coscienza, un suo pensiero.
Non mancano poi i soldati che amano uccidere, chi vede nella donna un essere inferiore e chi cerca vendetta nella guerra, ma sono solo facce di una medaglia enorme che è la razza umana, che quindi presenta anche molto dolore, molta tristezza, ma anche amore e felicità. Attenzione però a far coincidere il pessimismo di Schopenhauer con le reali intenzioni del regista, che ci tiene a dire che “è la prima volta nella storia che il futuro è incerto, in passato vedevano nel futuro un mondo migliore. Adesso con la povertà – non dimentichiamoci che facciamo parte di quei 2 miliardi di persone su 7 che possiedono le ricchezze – la crescita demografica, le guerre, la crisi dei migranti, il clima, capite cosa intendo per ‘il futuro è incerto’. Ma ora è troppo tardi per essere pessimisti e io rifiuto il pessimismo, Human non è un film pessimista, ma anzi insegna qualcosa di più sull’essere umano”. Ed è proprio questo quello che avviene sullo schermo, anche grazie alla scelta di non dare nessun riferimento, se non esplicitamente detto nell’intervista, riguardo nomi e luoghi, per non creare ulteriori barriere, ma per abbatterne almeno qualcuna. “Creare barriere non è mai servito a nulla. Ognuno di noi nel suo piccolo deve dare il suo meglio. Per cambiare il mondo serve poco, solo un po’ più di gentilezza, ci vuole più amore, sono cose semplici.” Lo dice con un tono incredulo, come a non voler credere al fatto che nessuno è cosciente che realmente “cambiare il mondo” sia così semplice - con piccoli gesti intimi, dal momento che l’uomo è niente di fronte alla Natura.
Si arriva così al sublime, che si respira soprattutto nelle incredibili scene aeree. In particolare in quei momenti in cui Bertrand cattura mari durante una tempesta, cascate, movimenti naturali che sprigionano un’energia, una vitalità che chiedono, piuttosto che vendetta, visibilità. Sembrano voler attirare l’attenzione dell’Uomo per fargli comprendere che la natura coincide con la Bellezza pura, ma anche con il Caos.
In molte scene infatti il regista diventa pittore - Turner, che è poi chi più di tutti ha mostrato la dualità che sta alla base del concetto di sublime, ma anche Friedrich nelle vedute calme, quiete, ma allo stesso tempo cariche di angoscia religiosa. Human ha infatti da l’idea di un film “biblico”, non a caso il regista dichiara apertamente di essere stato molto condizionato da “ The Tree of Life” di Malick, oltre che da opere come Koyaanisqatsi. Anche se la presenza divina è data più in relazione a un’entità naturale, rappresentata dalla Terra stessa, che in certe riprese sembra vivere insieme all’essere umano. Rifiutando in questo modo di porsi a favore di qualsiasi religione, che è sempre soggetta all’influenza umana, mentre la Natura, quella si, è ciò che più si avvicina al divino.
Un’assoluta gioia sia per gli occhi che per il cuore. Come in Mommy di Dolan qualche anno fa il protagonista allargava lo schermo, liberandolo dal suo claustrofobico 1:1, così Bertrand con le sue “opere d’arte” ci regala delle boccate di vitalità, una sensazione di straniamento davanti all’immenso, emozione che Ungaretti ha fissato nella memoria collettiva del nostro paese. Si arriva così a provare una sensazione di divenire altro da sé, dal momento che si passa da racconti talmente duri da non riuscire a trattenere le lacrime (sincere) a immagini di una tale bellezza e maestosità e infine poi a racconti di piccole storie umane, che sprigionano una tenerezza infinita. Proprio grazie a questo lavoro di alternanza quando il film finisce non ci sentiamo più individui, ma atomi che vanno a formare una sola materia.
Il film si muove con la linearità e l’effetto devastante di un flusso di coscienza, che in questo caso è quello di un’intera razza, che appare così fragile che diventa nulla davanti all’universo. Ed è questo uno degli interrogativi più interessanti suggerito dall’opera di Bertrand, cioè quello di come sia possibile che un essere così insignificante come l’Uomo sia capace di così tanta malvagità che potrebbe portare all’estinzione della propria specie.
In questo modo le critiche che sono state mosse al film sono per lo più riguardo la durata, le scene aeree considerate estetizzanti - addirittura si è criticata la presunta retorica del film - sono alquanto labili. Il suo vero pregio infatti consiste proprio nel mantenere un perfetto equilibrio tra interviste, temi trattati e immagini aeree che superano la pura forma o la retorica scadente per innalzarsi a qualcosa di più grande. Attraverso però un approccio assolutamente umile, perché sono le persone che parlano, è l’intero inconscio collettivo teorizzato da Jung che prende forma.
Una menzione speciale va data alla musica composta da Armand Amar, bellissima anche ascoltata indipendentemente, ma che connessa alle immagini aumenta esponenzialmente la sua bellezza e maestosità. La musica poi rappresenta una componente fondamentale che eleva il film a una dimensione globale, comune, che non riduce l’opera cinematografica alla messa in scena di un estro artistico singolo, ma esattamente il suo opposto.
“Se la vita è una grande sinfonia, ognuno di noi vuole far parte dell’orchestra che suona la sinfonia della vita e forse in fondo la musica, che in quanto esseri umani dobbiamo suonare, è sempre la stessa. Perché ciascuno di noi appartiene a questo mondo e la ricetta è probabilmente maggiore benevolenza, minore scetticismo, maggiore gentilezza. Sono ingredienti molto semplici ma in fondo è questo ciò di cui parla questo film.”
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