Regia di Zhao Liang vedi scheda film
Tabula Rasa Escavata (mongolishe).
non si può sollevare.
Che la terra è pesante,
pesante da portare.
È bassa, troppo bassa:
preme e schiaccia.
Fucina di potere temporale.
Ci sono immagini, dietro altre immagini. E vi sono cariche esplosive, dentro a queste/quelle immagini, atte a far rivivere un passato migliore, portando a spallaccio una lastra di specchio che ne ritramandi il ricordo. Carrellate laterali, panoramiche, piani fissi ad esplorare miniere a cielo aperto e ad abisso sprofondante chiuso di carbone e ferro (per la produzione di filati e tondini d'acciaio) e metalli rari (dal semiasse dell'automobile alla scheda madre del notebook) d'ammatassare in gigantesche, sesquipedaliche (e cosa non lo è: dai crateri nella pianura erbosa alle fearsome engine delle colossali fabbriche-fonderie, dalle debilitanti e devastanti malattie pneumoconiotiche ai dormitori formicaio-termitaio-alveari) foreste di lapidi all'immemoria della ricchezza accumulata che produce umanità estirpata: contadini che diventano minatori e operai, pastori stanziali che divengono erranti, immersi in un mondo che un tempo fu giovane e forte, in un territorio (un "terroir" che produce micro e nano polveri carbonifere e metallurgiche, con l'aiuto del petrolio) che hanno, forzatamente, contribuito a spaesare. Il primo volto umano in primo piano compare dopo mezz'ora e una serie inesausta e inesaurita d'inquadrature (co)strette (nelle viscere della terra), alternate, en plein air, a campi medi, lunghi e tendenti ad infinito, e dopo un'ora ritorna, il viso, altro, esplorato ancor più da vicino: particolareggiando s'una topografia fisica perlustrata con dovizia di particolari (il friabile terreno incandescente - tritolizzato - sul margine della voragine, e le gocce e le stille e i fiotti di sudore) : occhi, naso, bocca (espettorato bronco-polmonare), orecchie, mani, e i loro recrudescenti calli spessi perfora(n)ti.
Regia, Sceneggiatura e Fotografia (1.90:1, RED Scarlet, 4K): Zhao Liang. Montaggio: Fabrice Rouaud (sodale di Bertrand Bonello). Effetti Speciali: Eve Ramboz. Musiche originali: Alain Mahé e Huzi [dodeca(co)fonia armonica, industrial metal, echi di “Full Metal Jacket” by Abigail Mead aka Vivian Kubrick]. Musiche addizionali: Huun-Huur-Tu (le armoniche e gli ipertoni dei gorgheggi tuvanesi, parenti stretti alla lontana coi canti corali a tenore sardi).
Lo sguardo e l'approccio di Zhao Liang – classe 1971, attivo da una ventina d'anni come fotografo, audio-video artista e autore di installazioni multimediali (e questo lo avvicina, per fare un nome di un suo concittadino, ad Ai Weiwei) – sono in parte compartecipi al dolore ritratto, alla devastazione testimoniata, ma non vi è una complicità deleteria, posticcia, e la giusta distanza – quella che permette di fare a fette e di suddividere a spicchi (letteralmente) il piccolo mondo (il grande schermo) – è mantenuta (vigile), pur se - liminalmente - artefatta. Il cinema di questo regista è, per citare una delle sue ultime opere, una Petizione, una Querela, un Inno, un Poema, una Cantata: la bellezza della tragedia, l'incanto dell'orrore? No, il resoconto dello stato delle cose, allo stato dell'arte. Tornando ai C.S.I., anzi, ai P.G.R., da "MonteSole": "L'amore non lo canto, è un canto di per sé: più lo si invoca...meno ce n'è".
“Behemoth” (“Bei Xi Mo Shou”) raccoglie la lezione e l'eredità in vita, contemporanea e fraterna, di Wang Bing (“Tre Sorelle”), ri-producendo un uni – o anzi, meglio: multi – verso cosmopolita in cui la “Fata Morgana” di Werner Herzog precipita e collassa nelle “Lektionen in Finsternis”, mentre, pur al riparo dal vento post-atomico, “il Cavallo di Torino” di Béla Tarr, László Krasznahorkai, Fred Kelemen, Ágnes Hranitzky e Mihály Víg stramazza al suolo (toten-tief), gambe all'aria, rigor mortis avanzato, la purezza di Frederick Wiseman pugna d'amore in sogno col carnale astrattismo di Stan Brakhage, l'antropologica scientificità industriale di “Leviathan” (Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel) trova completamento nel “Materia Oscura” di Massimo D'Anolfi e Martina Parenti -[e inespresse assonanze musicali - oltre che prettamente e profondamente contenutistiche - fra due territori che sono quasi agli antipodi ma in tal senso evolutisi parallelamente, Sardegna e Mongolia: si ritorna ai Tenores (di Orosei in questo caso) e all'Herzog di “the Wild Blue Yonder” (S/T in cui Behemoth ha già calpestato a “dovere” la Terra degli Esseri Umani); e, inoltre, ulteriori consonanze sono riscontrabili anche - pur se più mitigate e non così estreme - con altri loro lavori come “il Castello” e “l'Infinita Fabbrica del Duomo”]-, e il cinema narrativo connette pseudopodiche interfacce grammaticali e sintattiche attraverso Carlos Reygadas e il suo “Post Tenebras Lux” (le tripartizioni dello schermo a spicchi e fette, un cosmo-arcipelago frammentato, in frantumi, complesso, complicato, confuso, caotico, entropico), Matteo Garrone e “Gomorra”, Godfrey Reggio (Anima Mundi e la trilogia -qatsy) e, tra i tanti poemi audio-visivi, “une Histoire de Vent” di Joris Ivens (che alza solo polvere di coke), e trova nel “Monte” di Amir Naderi il suo contraltare più puro (impertinente invece sarebbe il paragone dicotomico con l'embedded "the SeaFarers" di Stanley Kubrick o con gli altrettanto splendidi documentari-di-finzione di Ermanno Olmi per la EdisonVolta), cointeressenziale [nella restituzione di un (dis)senso alle umane sorti: il paradiso è l'assenza (del lavoro), il riposo (eterno): la beffa suprema, un'altra versione dell'inferno sulla Terra e del purgatorio senza fine] e com-passionevole.
Dall'Ilva di Taranto & C. all'Eternit di Casale Monferrato & C. se non possiamo ripulirci i polmoni, laviamo allor'almen le foglie alla pianta da cortile nel cemento, portata a spasso, al lavoro, in braccio, come fosse un animale domestico, un esempio di casa, giaciglio, focolare (il ricordo di una speranza, l'ultimo non certo baluardo ma cascame, rigaglia, lacerto vestigiale abortito di un futuro che non-è). De-forestazione, urbanizzazione, capitalismo secolare...
Il corpo nudo dormiente --{del testimone, il Virgilio inconsapevole, l'imago frantumata e moltiplicata logaritmicamente di un Giobbe che abita un mondo -[adatt(at)o(si) all'umanità: crateri nella crosta terrestre pullulanti di vita, coree dormitorio sp-a/e-zzate dal vento ospitanti la sopravvivenza, monoliti-gescal fantasmatici inabitati: unità di produzione]- che fu, logorato, immiserito, depredato, esausto, sfiancato}-- immerso nello sconquasso.
L'inesorabile devastazione occupa tutto l'orizzonte del mondo (in)creato, vi s'inoltra dentro: le ocra-cineree terre di scarto sopr'avanzano i verdi pascoli procedendo in avanti il loro friabile silicoso confine franante, le didascalie in esergo e l'ultra-diegetico voice-over narrante utilizzano il Libro (la Bibbia dell'Antico Testamento) e la Commedia (Umana, troppo Umana, Divina perché dantesca) a compendio – un po' come tradurre il “Finnegan's Wake” (svegliatevi, tuva!, mongoli!, cinesi!) in qualsivoglia lingua(ggio) – di una scorticata e urticante poetica retorica, ma le immagini e i suoni sono talmente potenti e concreti e la verità (delle umane greggi al macello coi paraocchi autoindossati e il frustino che schiocca) estrusa dal dato naturale così limpida che la rappresentazione subissa la didattica, e l'arte ragiona con la morale.
DA...
...A.
È lo sguardo degli altri che ci costituisce, rappresenta, performa. Cosa siamo, noi, mentre assistiamo a “Behemoth”? Spettatori, attori o co-autori?
Una detonazione di tritolo e roccia osservata ripresa e filmata non è una detonazione di roccia e tritolo ripresa e filmata non è una detonazione di roccia e tritolo.
Gli spettatori potrebbero desiderare una trama, prima di eclissarsi. Ma il Cinema, davvero, non ha bisogno d'altro.
…sono sacri / gl'interessi dell'ENI…
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