Regia di Michael Moore vedi scheda film
Documentario su tutto ciò che funziona nelle altre nazioni del mondo meglio che negli Usa (le mense scolastiche in Francia, la libertà della donna in Tunisia, le carceri in Norvegia...), fermo restando però che tutti i sistemi virtuosi sono stati inventati dagli americani.
A sei anni di distanza dal disastroso Capitalism: a love story, Michael Moore ritorna al cinema con un documentario 'dei suoi', cioè più mock- che doc-, più orientato allo sberleffo senza contenuti che alla diffusione di un messaggio, più impostato su una precisa sceneggiatura che girato 'sul campo'. Where to invade next non solo è l'ennesimo passo di slancio verso il nulla nella filmografia di Moore, sempre in calando dagli esordi a oggi, ma è anche un compendio di tutto ciò che egli ha detto e fatto fino a questo lavoro. Non c'è più Bush, non c'è il capitalismo, non c'è nessun fantasma a stelle e strisce da combattere (per amor di patria, naturalmente: Moore è più reale del re, patriottico in una maniera che dalle nostre parti solo qualche nostalgico può eguagliare), ma c'è tutto questo riassunto e frullato, in Where to invade next. Più la consueta carrellata di luoghi comuni e discorsi da bar trasformati in ardimentosi cavalli di battaglia, per prodursi così in una sinfonia populista che fa dello pseudogiornalismo - non tanto differente da quello di Lercio, per capirci - il suo marchio di fabbrica, il piede di porco con cui scardinare le brutture e le nefandezze della realtà. Quali brutture, quali nefandezze? I difetti macroscopici degli Usa che, secondo il regista, sono curabili guardando ai modelli esteri; nello specifico: il sistema carcerario norvegese è una meraviglia, la libertà della donna in Tunisia (!) è all'avanguardia mondiale, il sistema previdenziale e sindacale italiano è una favola. Esatto: una favola. In questo caso, però, una favola che insulta la vita reale, notoriamente ben diversa. Inutile infuriarsi: è normale avere voglia di sradicare la poltrona del cinema e lanciarla contro lo schermo, osservando l'ottusità che ne viene propagata, la menzogna, la facile demagogia e la totale mancanza di basi logiche che supporta gli sproloqui di Moore. Ma bisogna avere pazienza con lui: è americano, evidentemente ciò che da anni sostiene sui suoi connazionali (cioè che non siano esattamente dei superdotati intellettualmente) è vero. E questa è l'unica verità mai uscita dalla sua bocca. Vestito come Vasco, agile come il Gabibbo, Moore gira mezza Europa passando in treno dalla Francia alla Finlandia (!) e confondendo nazioni e itinerari, dichiara che Gesù è nato in Italia (!) e simili castronerie per due ore tonde di fila, per chiudere, sfinito, devolvendoci i suoi filmini delle vacanze - sempre di sè parla, anche se in questo film un po' meno del solito - del 1989, quando insieme a qualche amico venne a liberare l'Europa abbattendo lui personalmente il muro di Berlino a picconate. Il significato recondito di questa sequenza, che contraddice in maniera palese e spettacolare il sarcasmo del titolo del film, è la chiave di lettura dell'intero cinema di Moore. "Da non crederci" è un'espressione che aderisce alla perfezione a questo film e sempre di più, con il passare del tempo, all'opera di Michael Moore. Peggio di così poteva solo inserire scene di pedopornocoprofagia: mezzo voto in più per non averlo fatto. 1,5/10.
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