Regia di Matt Brown vedi scheda film
https://www.youtube.com/watch?v=GHlaufCy6pI
Una rappresentazione di maniera sulla scintilla (divina?) dell’intuizione, a scapito del metodo.
Con The Man Who Knew Infinity l’anonimo M.Brown si cimenta nello sforzo apprezzabile di inscenare un biopic capace di “scaldare i cuori” (M Valdemar).
E lo “sforzo” della resa, in ragione del soggetto prescelto, appare, in effetti, inevitabile: riuscire nell’impresa di tradurre - in concetti ed idee fruibili ad un pubblico (per la maggior parte) profano dei grandi numeri - bidimensionali stringhe alfanumeriche (altrimenti dette “formule”) poteva risultare una sfida impossibile.
Viceversa, il risultato (giusta gli illustri precedenti, solitamente amati dal grande pubblico) sarebbe stato largamente eccellente.
Orbene, la percezione degli schemi che imbrigliano la perfezione del caos, anche quando solo accarezzata, non si allontana - alla prova dei fatti (nei fondamenti argomentativi, alias le dimostrazioni) - dallo scatenare, per lo più, il fermento del linguaggio parlato (quasi mai verboso) a detrimento di quello sensoriale.
L’algida atonia delle prime scene si scioglie lentamente, man mano che il protagonista trova il suo spazio nel mondo accademico che conta (e nel mondo tout court), ma la gioia dei grandi numeri (soprattutto quella che potrebbe essere suscitata dalla loro comprensione) rimane per lo più imprigionata nella testa e nel cuore dei protagonisti, oltre che in quelli di coloro che il film lo hanno scritto e diretto.
Ma poichè lumeggiare il genio anarcoide che ha dimorato nel protagonista significava, altresì rintracciarne le radici (e poiché, soprattutto, laddove così non fosse stato, il target di pubblico ne avrebbe risentito alquanto), queste in una dimensione spirituale sono state rintracciate. Ed al legame intenso con il proprio credo (ed il suo complesso di regole) corrisponde, parimenti, quello – più platonico che altro - con l’amata giovane moglie.
Insomma, tra abbondanza di carne al fuoco (last but not least: la discriminazione razziale ed il colonialismo, le contraddizioni e il conservatorismo del milieu accademico, la crudezza della guerra, lo iato fra scienza e fede, il valore dell’amicizia ecc.) e l’osticità intrinseca (alla rappresentazione su larga scala) dell’appeal della disciplina oggetto di interesse, l’opera non si può dire riuscita del tutto.
Ma, come tutti i biopic sulle grandi menti, certamente (può dirsi) assai opportuna (almeno il tentativo).
E buona si rivela, peraltro, l’interpretazione di D.Patel e J.Irons (a quest’ultimo, d’altronde, ci voleva poco).
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