Regia di Giuseppe M. Gaudino vedi scheda film
Ci sarà già capitato, lo sappiamo bene: il racconto, a volte, vuole fare di testa propria, si rifiuta di venirci incontro. Ma questa può essere la sua forza: mettersi in mostra e prenderci un po' in giro. Del resto siamo noi che dobbiamo cercare di capire. A lui spetta solo il dovere di esserci e parlare. A modo suo, come meglio crede.
Pennellate di mito. Chiazze di incubo. Schegge impazzite di allegorie. Ombre psichedeliche si allungano dai sotterranei al cielo, in una Napoli senza tempo che vive la sua esistenza in bianco e nero con una rassegnazione prova di colore, tale da togliere anche alla parola niente ogni accento di filosofia. Anna, moglie infelice e madre di tre figli adolescenti, vive la disgrazia portando sulle labbra il sorriso appena accennato che spetta alle piccole fortune, agli amori solo intravisti, alle speranze che, nonostante tutto, ancora non se la sentono di morire. Intorno a lei, in mezzo al male, non mancano, in fondo, gli appigli del bene, anche se sono minacciati dalla pioggia, dai nuvoloni neri che improvvisamente si addensano sopra l’orizzonte, dall’acqua che inonda il suolo e infradicia i visi degli uomini. Il suo mondo fatto a pezzi – buono per un collage un po’ kitsch di icone mistiche, magiche, religiose, esoteriche – arranca lungo una storia che strappa al romanzo televisivo qualche brandello di spensierata illusione, qualche sospiro di melodramma che mozza il fiato, in una lentezza discontinua che ricorda una danza campestre ballata senza ritmo, da chi vuole comunque esserci e fare festa, pur non essendo capace. Anna è un pezzo di gente sottratto al caotico fluire della massa, un esemplare di capasciaqua che si abbandona maldestramente al caso che ormai l’ha fatta sua, e pure non smette mai di sognare. Ogni suo pensiero o movimento è una briciola di pena, un passo compiuto su un coccio tagliente, in un cammino doloroso e zigzagante che, per definizione, è totalmente estraneo all’armonia. È un atto poeticamente zoppicante, liricamente ubriaco come la superstizione che accende candele nelle catacombe e parla coi teschi, carezzando l’orrore come se fosse una sublime allucinazione. A volte lo sguardo si arresta, per divagare su un fotogramma che si tinge delle tonalità sgargianti di un acquerello votivo, come a sottolineare che la realtà è quella invisibile, estrosa e lancinante che cova dentro l’animo, e che non può urlare, e dunque si accontenta di procurare l’indistinta vertigine dell’altezza, dello sbandamento, della forza centrifuga che capovolge il paesaggio e frulla i sensi. In una società disagiata, degradata e malata - afflitta dall’ignoranza, dalla disoccupazione, dal crimine – una donna del popolo vive i suoi dilemmi etici e sentimentali con la roteante suggestione di un capogiro, in cui tutto si mescola, memorie e paure, rancori e passioni, sospetti e curiosità. Anna non ha le risorse per fare ordine, per creare un significato complessivo, per progredire nella coscienza meditando sui propri errori. È una vittima alla disperata ricerca di un riscatto, che procede senza criterio, incontrando ovunque nuovi motivi per fuggire. Giuseppe M. Gaudino sposta l’attenzione dal racconto alla parafrasi psicologica, per renderci partecipi, con suggestioni visive ingenuamente surreali, del tourbillon di povere cose con cui una mente semplice elabora situazioni più grandi di lei: ne scaturisce un cerebralismo autenticamente naif, genuinamente folle, privo di concetti ma mostruosamente debordante di flash primordiali, incompiuti, non ancora civilizzati. Tutto ciò magari ci spiace, ci delude, ci infastidisce, come l’incomprensione che derivi da una incomunicabilità non codificata, da prendere così com’è, nella sua forma rozza, segnata da una selvaggia impertinenza. Si presenta, di fatto, come una corazza coriacea, che ci impedisce l’accesso al film, al suo spirito confuso e immaturo, che comunque non ci sta, e si ribella pure a noi. Il vero protagonista della storia, che non si lascia mettere a fuoco, è proprio quell’inattesa ed anonima entità interiore, che presiede al nonsense dello sgomento di chi vede i guai standoci dentro, in quel buio che c’è anche di giorno: su di noi spettatori, ha lo stesso effetto di un pupazzo con il berretto a sonagli che salti fuori, beffardo, dalla scatola che credevamo contenesse un regalo. Ed impersona la verità, banale e incongruente, che ci coglie di sorpresa, impreparati ad abbassarci al suo livello di amarezza claunesca, dipinta con le dita, con tratti incerti, con la vernice che sbava a destra e a manca.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta