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Un gioco estremamente pericoloso

Regia di Robert Aldrich vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Un gioco estremamente pericoloso

di Inside man
6 stelle

“Io amo i relitti, vecchie orchestre, vecchie canzoni, vecchi pugilatori, vecchi soldati”.

 

E’ racchiusa in questa emblematica frase la residuale filosofia di vita di Phil Gaines, tenente di polizia protagonista di Hustle, pellicola ascrivibile all’ultimo periodo cinematografico di Aldrich caratterizzato da una profonda crisi di aspirazioni personali e professionali.

Il film ha da sempre suscitato pareri assai discordanti nella critica, oscillando fra stroncature senza appello ed entusiasmi privi di riserve. 

A parziale sostegno dei primi, va detto che sul versante ideologico siamo palesemente di fronte ad una delle opere più “svogliatamente impegnate” del regista di Carston, qualificata da una denuncia sociale “anti-sistema” di tangibile manicheismo.

Oltretutto il film cambia registro in corso d’opera passando repentinamente da un taglio anarchico-progressista (riconducibile alla “left wing democratica” verso cui l’autore simpatizzava da una vita) a una concezione populistico-vendicativa tanto in voga in quel preciso momento storico (a metà strada fra il Callahan siegeliano e il ben più rozzo giustiziere di Winner) dove a influenzare maggiormente sono gli impulsi di pancia e le rivincite della giustizia “fai da te” (vedi l’uccisione del maniaco e la messinscena in casa Sellers), piuttosto che la romantica e catartica ricerca ideale della personale “balena bianca” (se ne fa accenno nel film in riferimento al celeberrimo capolavoro letterario di Melville).

 

 

Proprio a causa dell’estremizzazione così innaturale della poetica aldrichiana, la componente politica viene a perdere forza ed efficacia antiretorica, risultando in definitiva la meno valida del lungometraggio, in particolar modo nella sequenza originariamente destinata a rappresentare il momento clou del “messaggio”: il salvataggio dalla condanna di omicidio del padre della ragazza (“uno che non conta nulla”) tramite la simulazione di una legittima difesa, una scena emotivamente piatta, priva di pathos, tirata via affrettatamente (più che assassinato da un proiettile a bruciapelo, il boss-avvocato Leo Sellers/Eddie Albert pare goffamente assopito).

C’è ovviamente un motivo alla base di tutto ciò: in alcune interviste, Aldrich stesso aveva onestamente riconosciuto da un lato il personale disinteresse verso i risvolti sociologici della trama e nei riguardi dell’indagine poliziesca e dei personaggi ad essa collegati (evidente l’approssimativa definizione del Marty Hollinger interpretato da Ben Johnson), e dall’altro di aver viceversa privilegiato la storia d’amore fra i due protagonisti.

 

Su questo secondo aspetto non si può non concordare con gli estimatori della pellicola, la liaison è invero robusta e improntata ad un cocktail assai riuscito di noir e melò psicologico; il rapporto di coppia è giocato di sottrazione su tinte disillusamente virili, con il chandleriano e rassegnato disincanto del detective che incontra il fascino e l’orgoglio della bellissima donna “perduta”.

Lasciano il segno gli sguardi d’intesa fra i due amanti, i bei dialoghi permeati di malinconia, le  intense pause sul balcone dell’appartamento affacciato sulla spiaggia nei dintorni los-angelini, ultimo e concreto rifugio da una realtà quotidiana sempre più estranea e incomprensibile.

Il canonico tema del “sogno di una nuova vita” (una delle costanti d’elezione della storia del noir e del polar a stelle e strisce) appare già in avvio niente più di una chimera per Phil e Nicole, con la significativa difformità sulla destinazione della loro fuga (Roma lui, Parigi lei) a far da sottile metafora di una diversità in fondo incompatibile; l’intrinseca utopia del loro desiderio è un rimarchevole esempio del copioso recupero di stereotipi dal melodramma classico (ove gli amori nascono, si sviluppano e spesso muoiono sotto gli effetti attrattivo-repulsivi di svariati elementi contrastanti fra loro, ora sociali, morali, razziali, caratteriali o anagrafici).

 

 

Aldrich dà il meglio di sé nel creare un’atmosfera che evita qualsiasi banalizzazione (al contrario di quanto avviene nella parte “politica”), rendendo credibile una relazione altrimenti assurda fra un navigato tenente abbandonato dalla moglie e una escort con clientela nel losco mondo della malavita (sorge immediato il nesso con l’archetipico e ambiguo rapporto d’amore, permeato da tracce di morbosa perversione, fra Velma e Mike Hammer, protagonisti del bellissimo e dirompente Un bacio e una pistola - Kiss me deadly – 1955, un legame magnificamente raffigurato, tra le pieghe della censura del tempo, con pochi tratti di ben altra forza e pregnanza espressiva).

Comunque sul versante romantico-nichilista, Un gioco estremamente pericoloso prende risolutamente quota anche grazie a una regia classica, pulita, forse demodeè (a metà anni settanta si era nel pieno della rivoluzione estetica new-hollywoodiana), ma certo lungi dal mostrarsi sorpassata, vista l’indubbia precisione dell’autore americano nel cesellare drammaturgicamente la dimensione della love story e nel delineare egregiamente l’ennesimo loser “con tanto passato, poco presente e niente futuro” (cit. Valerio Zurlini da "La prima notte di quiete" - 1972).

 

Di contro si accennava in precedenza alla scarsa incisività del plot poliziesco nella descrizione in forma di bozza di un crimine altolocato tra avvocati e sindacati corrotti, come pure dell’anonimo sottobosco delinquenziale fra locali di spogliarello e negozietti rapinati (la sequenza in cui perderà la vita Gaines è un altro esempio di messa in scena trascurata).

Difficile dimenticare gli scambi “da telefilm poliziesco” (per usare le parole dello stesso Aldrich a Positif nel 1976) intavolati nell’ufficio del superiore Santuro (Ernest Borgnine), o la contraddittoria costruzione del personaggio del sergente Louis Belgrave, sballottato fra il ruolo ora di fido compare ora di reazionario persecutore di un pregiudicato albino (picchiato con selvaggia gratuità), ora di collega insofferente deciso a coinvolgere ad ogni costo nell’indagine Leo Sellers, ora di integerrimo servitore della legge restio a sostenere la macchinazione finale di Gaines.

Ancora una volta l’inadeguatezza di una sceneggiatura, in questo caso del sopravvalutato Steve Shagan, non assiste a dovere il regista.

 

A conferma dell’esito complessivamente altalenante, c’è da annotare il bilancio positivo per gli attori principali, in special modo per un sorprendente Burt Reynolds, capace di offrire una prova di vaglia nei panni di uno dei drop-out più vividi usciti dalla cinepresa di Aldrich.

All’epoca divo di fama planetaria, prettamente per il sex-appeal e l’atteggiamento “macho”, spiazzò pubblico e addetti ai lavori con questa performance di razza passata essenzialmente in sordina come il film stesso.

Quasi tutti i brani migliori di Hustle poggiano sulle sue spalle, e la sottile introspezione psicologica di Phil Gaines anticipa quelle eclettiche qualità d’interprete che emergeranno in alcune parti della sua maturità (Boogie Nights di Paul Thomas Anderson - 1998).

 

Forse memore dell’incolore esperienza in un personaggio per certi versi simile (Notte sulla città - Un flic - di Jean Pierre Melville 1972), Catherine Deneuve regge il gioco calandosi diligentemente nella sua Nicole, donandole come al solito un fascino coinvolgente e un altero distacco emotivo, ma senza raggiungere un’apprezzabile adesione mimico-gestuale e senza incantare veramente; fedele al suo stile, rimane per l’ennesima volta più icona di se stessa che personaggio filmico a tutto tondo.

Unica eccezione forse il dolente finale, quando dopo aver intuito la tragica morte del tenente, riesce a trasmettere con intensità e senza una sola parola la sensazione di una perdita tanto temuta e irreparabile.

 

Svanisce un grande amore, un futuro felice, e riaffiora prepotente lo smarrimento di una vita intera, quella di Nicole nella finzione, probabilmente quella di Aldrich nella vita reale di quegli anni privi di grandi soddisfazioni.

Un colpo d’ala che si imprime nel ricordo.

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