Regia di Robert Aldrich vedi scheda film
Una delle opere più controverse fra quelle realizzate da Robert Aldrich è proprio questo Un gioco estremamente pericoloso (Hustle in originale)decisamente fra le produzioni più singolari e dissonanti della sua complessa e articolata attività di regista comunque sempre fuori dagli schemi.
Troppo spesso di fronte al suo eclettismo che spaziava fra i generi con competente “disinvoltura” piegandoli comunque sempre al suo volere (lo stile, la zampata, i rigurgiti di un orgoglioso talento mai completamente domato nemmeno dalle frequenti imposizioni produttive o dalle controversie economiche, sono elementi riconoscibilissimi in tutto il suo percorso artistico, e anche in questo titolo che potrebbe risultare più anomalo di altri proprio a causa di una normalizzazione apparente della forma, sono ben presenti e palpabilissimi, “invisibili” solo a chi si ostina a non voler vedere).
E’ probabilmente il suo essere stato di volta in volta “spiazzante” anche nella metodologia scelta per la narrazione (come nel caso della pellicola in esame appunto)che ha irritato una critica un po’ disorientata dai suoi “slittamenti” non conformi e che trovando forse troppo faticosa una analisi comparata sullo stile, ha preferito semplificare rifiutandosi così di accettare persino la liceità di un andamento singolare certamente controcorrente e una modalità di rappresentazione delle cose causticamente ironica, sopra le righe e anche un po’ barocca, ma personalissima e incisiva, affilata come la lama di un bisturi, facendolo di conseguenza oggetto di attacchi troppo feroci e immeritati, per non essere costretta ad ammettere di “non aver capito” e dover di conseguenza fare ammenda nel riconoscergli per lo meno il merito di una ricerca appassionata, di una vis anche polemica fuori dal comune implementata da un equilibrio sempre bilanciato fra istrionismo e velleitarismo, nella sua galoppata sempre pregnante e puntuale, a cavallo appunto non solo dei generi, ma anche della loro demistificazione, portata avanti con grinta e con coraggio da un vero e un po’ misconosciuto “maestro del cinema” dotato da inusuali qualità “demistificatorie”.
Il titolo in questione è una dimostrazione emblematica che conferma l’esistenza di una specie di misunderstanding fra creazione artistica e fruizione “critica” degli addetti ai lavori, capace di determinare un vero e proprio corto-circuito percettivo che potrebbe essere all’origine (volendo escludere la malafede)di sensazioni e giudizi decisamente controversi e contrapposti,così inconciliabili fra loro da risultare persino incomprensibili (ma che credo siano poi alla fine anche gli elementi più evidenti – e paradossalmente qualificanti – atti a confermare la vitalità e le qualità innovative di una eccellenza visionariamente istrionica con cui vengono affrontati da Aldrich e spesso messi alla gogna, i molti vizi endemici della società non solo del presente ma anche del passato.
Pesantemente denigrato, se non addirittura disprezzato ed irriso dai più (e parlo ancora della critica ufficiale), definito un film sbagliato, un vero e proprio passo falso che avrebbe dovuto essere evitato con un po’di necessario buon senso “visti gli esiti disastrosi a cui approda” (parole di fuoco scritte all’indomani della sua uscita sul mercato americano), ma che altri fortunatamente (Ed Lowry per esempio) ebbero l’ardire in assoluta controtendenza, di considerarlo da subito uno sconfortato e sconfortante capolavoro, un film che riesce meglio di quasi tutti gli altri, a riassumere e denunciare lo spostamento morale e l’angoscia emotiva di tutto il decennio 1970, Un gioco estremamente pericoloso è invece un’opera che merita rispetto ed attenzione. Anche dal mio personale punto di vista comunque, questo dualismo critico può essere interpretato alla fine come il positivo segno di una qualità provocatoria che sa scegliere modi diversi (ma sempre appropriati) per raggiungere il bersaglio, non sempre ben compresa però,visto che al di là di uno scetticismo diffuso su tutta la sua opera che ancora oggi purtroppo esiste espresso da più parti, riguarda soprattutto le produzioni più ambiguamente dissonanti rispetto a ciò che si pretendeva di definire “aldrichiano” secondo canoni precostituiti e codificati, come se il regista (ogni regista) dovesse essere in ogni caso costretto a rimanere fedele ed ancorato ad un modulo univoco di “riconoscibilità” consolidata e inamovibile.
La dicotomia esistente su questo titolo (che rimane fra i meno celebrati del regista) riguarda ovviamente anche l’Italia, rilevabile persino ai giorni nostri consultando semplicemente i due dizionari di cinema più accreditati, il Mereghetti e il Morandini,che si differenziano sostanzialmente,non tanto nella valutazione finale abbastanza analoga come numero di stellette utilizzate, ma proprio nelle parole scelte per raccontarlo al pubblico fruitore: Un passo falso di Aldrich nel territorio del cinema nero con risvolti intimistici tra amore e corruzione, per il primo; un poliziesco amaro e senza speranza (…) con il quale Aldrich non ha paura di tirare pugni nello stomaco dello spettatore, per il secondo.
Ad essere gentili, potremmo parlare allora di affrettata e approssimativa supponenza (per alcuni poco “illuminata”) nei confronti di un cinema che, come sempre accade alle estremizzazioni intransigenti di un pensiero un po’ controcorrente e inusuale, produce opere da “prendere o lasciare” senza mezzi termini, di quelle insomma che come si suol dire, “lasciano il segno” e non risultano comunque “indolori” per nessuno.
Per me – e credo di averlo già fatto ben comprendere con quanto ho esposto sopra, questo poliziesco segnato dallo squallore più turpe (l’indagine nell’universo tragico della prostituzione), dall’amoralità più assoluta (ancora il mondo dei poliziotti corrotti con cui Aldrich si è confrontato in più di un’occasione), oltre che da una violenza senza limiti (spesso esplicitata in sottotraccia), è ovviamente da “salvare “ in toto, non solo formalmente, ma anche e soprattutto per il suo sconvolgente pessimismo scoraggiante ben stemperato in una narrazione in superficie meno al vetriolo del solito, ma intrisa di una sconfortante “verità” esplicitata in toni insolitamente realistici, che descrive una società degradata fino al caos fra crimini e misfatti, e un detective tutt’altro che senza macchia e senza paura, alla ricerca di un ordine (ad ogni costo) sia nel pubblico che nel privato, che può arrivare persino – semplicemente per onorare la forma dell’apparenza - ad avallare l’omicidio di un farabutto e a tentare la redenzione della sua amica che si prostituisce, per reintegrarla nel più consono (e tranquillizzante) ruolo di casalinga. Degrado e corruzione non solo morale dunque, con tutti gli annessi e i connessi che ne derivano.
È allora proprio la ricerca di una nuova, forse impossibile moralità in un universo che risultava ormai già da allora privo di valori o che addirittura potremmo dire che quei valori li aveva ripudiati da tempo, l’elemento straordinariamente innovativo che rende importante ed attuale l’opera, proprio perché realizzata da un regista che era e resta ”il cantore dell’amoralità”, e che quindi di fronte alla inversione (modificazione) di una società sempre più degradata e corrotta a tutti i livelli (ne sappiamo qualcosa per quel che siamo costretti a “vedere” e sopportare nella contemporaneità anche italiana), con il suo impietoso scavo nelle squallide radici della vita (del poliziotto conformista, della ragazza e del passato nascosto di suo padre che a tre anni sorprese sua madre a letto con un altro), ha tentato così a suo modo quando ancora forse era possibile fare qualcosa per modificare la tendenza, di lanciare un inascoltato avvertimento di fronte all’abisso che si stava aprendo davanti ai nostri piedi e che ormai ci ha inghiottito fino al collo e dentro al quale arranchiamo senza troppe speranze di riuscire a riemergere.
Per una analisi critica più dettagliata e approfndita della storia e del film rimando alla eccellente lettura fatta da degoffro che mi precede, e che invito tutti a leggere con particolare attenzione.
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