Regia di Liu Shumin vedi scheda film
Venezia 72 - Settimana della Critica
Tra i cineasti orientali – teorici dell’immagine e del pianosequenza – che attualmente realizzano film, e fra cui si possono classificare per esempio Tsai Ming-liang e Lav Diaz, non c’è ragione per non aggiungere Liu Shimin, che con Jia (The Family) realizza il suo opus n.1. Jia è vera e propria Teoria estetica della vita quotidiana, un film che ad ogni sequenza propone una struttura filmica puntigliosa, attenta, figlia diretta di una ricerca formale ben precisa. Un’evoluzione, quella della regia di Jia, che si coglie lentamente con la prosecuzione del film, interpretando e reinterpretando via via lo stile di Liu, le sue evidenti intenzioni e i suoi tentativi indiretti, allusivi.
Come ogni capolavoro, Jia è di una semplicità disarmante (volendo, difficilissima), perché “basta osservare”. La trama entrerebbe in poche frasi, e potrebbe anche essere totalmente diversa da quella del prodotto finito. Ciò che è importante è la figura umana, e di conseguenza l’uomo, gli esseri umai e i suoi affetti (proprio quegli esseri umani, proprio quegli affetti). Fin dalla prima sequenza (in cui la protagonista taglia la testa a un pesce per cucinarlo), la sfida lanciata da Liu è nei confronti dell’occhio spettatoriale. La figura del pesce decapitato e poi scuoiato non è al centro, ma è un continuo vedo/non vedo con i gesti dell’anziana donna. Nonostante sia quest’atto improvviso e violento a catturare la nostra attenzione, comprendiamo fin dall’inizio che non è fondamentale per quella scena. È ovvio che il centro sia lei, Deng, ma non è neanche questo ciò che, tutto sommato, è importantissimo. Quello che più salta all’occhio, ed è ovvio che sia così anche vedendo il resto del film, è che Liu rielabora la gerarchia dell’immagine. Poco dopo le sequenze iniziali del film, benché abbiamo già fatto l’occhio ai nostri protagonisti, gli esterni ci disorientano con i loro infiniti dettagli, sia nei grandangoli che nelle inquadrature più strette, anche quando stiamo seguendo i protagonisti (che raramente sono davvero al centro, se non nei primi piani). Quando essi passeggiano negli esterni, nelle strade delle città, sono sempre confusi con un infinito andirivieni di persone, auto, elementi del paesaggio, tanto che le durate pure lunghe di ogni singola inquadratura spesso non bastano per lasciare che lo spettatore scopra tutti i segreti di queste. La realtà di Jia, specie all’inizio, è una realtà ramificata, torrentizia, varia. In contrasto evidente con le immagini più intime e private, in cui con le figure costanti di vetri, specchi e superfici lucide su cui le figure si riflettono, comprendiamo che tutti i vettori dell'immagine sembrano sempre portare "altrove", a sconvolgere ancora una volta le gerarchie.
Non appena entriamo in contatto diretto con i personaggi, tramite le immagini furtive degli interni, gli infiniti dettagli infinitesimi dell’immagine assumono un significato più profondo. E definiamo le immagini degli interni “furtive” perché spesso colte da dietro uno spigolo, attraverso un uscio, magari ricostruite da dei dialoghi che avvengono dietro a una porta. Liu non ha intenzione di irrompere violentemente nella vita dei protagonisti, mai ripresi in maniera invadente né seriosa né cinica. Ha piuttosto intenzione di irrompere violentemente nel nostro modo di guardare l’immagine filmica, nel nostro sguardo. Non senza un filo di sporadica ironia.
Una volta conclusa l’esplorazione dello spazio, nelle sue tre dimensioni, Liu si confronta con la quarta dimensione, del tempo. “Il tempo è tutto ciò che mi rimane”, afferma Deng per rispondere all’anziano marito, ed ecco che dunque Deng e anche noi abbiamo necessità di prenderci tutto il tempo che ci serve, per entrare nel tempo delle cose. Spesso nei lunghissimi piani-sequenza dei film di Lav Diaz a colpirci è un senso di costante attesa o di ondivago onirismo, mentre nel caso di Jia sembra essere la faccia della/e realtà al centro, e anche i motivi per cui, con il passare del tempo, della realtà riusciamo ad affezionarci ad alcune cose piuttosto che ad altre. È per questo che a un certo punto l’occhio dello spettatore comincerà a cercare disperatamente la figura di Deng e Liu, i due anziani coniugi (curiosa l’omonimia fra il regista e l’attore protagonista), in mezzo alla folla, e riuscirà a trovarla, nonostante le infinite altre distrazioni, i piccoli gesti paralleli, piccoli altri eventi (azzardiamo pure un paragone con l’esperimento Nowa Kziaszka di Zbig Rybczynski, in cui osserviamo contemporaneamente tantissimi scorci della stessa città e la confusione che ne consegue): filmicamente, siamo entrati nella Famiglia del titolo, e quest’astrazione dei dettagli e delle cose dalla realtà, questa stessa rielaborazione della realtà, è l’Arte, in tal caso puro Cinema.
Inevitabile il paragone con il Viaggio a Tokyo di Yasujiro Ozu, ed è altrettanto inevitabile che narrativamente sia un paragone pedante. Le intenzioni dei due registi sono diversissime. È piuttosto esteticamente che Liu riesce a creare un dialogo con il cinema del regista giapponese. Basti guardare alle numerose sequenze delle città viste dall’alto (leitmotiv dei film di Ozu), all’attenzione per oggetti, cose, elementi apparentemente poco importanti (certe sequenze dell’Autunno della famiglia Kohayagawa), al rapporto infanzia-tecnologia (Buon giorno), alle due sequenze delle foto di famiglia (Fratelli e sorelle della famiglia Toda), per capire che il cinema di Ozu è eternamente presente, e fa da ideale punto di riferimento. Ma se vogliamo Jia non è isolatamente legato al cinema di Ozu, ma anche a quello di molti altri autori orientali, dalle contemplazioni di Edward Yang (Yi yi) fino ai personaggi in contesti paesaggistici di Abbas Kiarostami (la trilogia con E la vita continua).
Dunque, per quanto richieda impegno e pazienza (Jia dura 4 ore e 40 minuti), il film d’esordio di Liu Shimin è un film di clamorosa importanza, un patrimonio di invenzioni visive mai ostentate ma sottili e importanti, un esempio pazzesco di grande Cinema, quello che attinge ai sentimenti, certo, ma anche alla voglia dello spettatore di saper guardare, e al sentimento spontaneo che ne consegue.
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