Regia di Philippe Grandrieux vedi scheda film
Meurtrière è una lenta ed inesorabile danza abissale coreografata da Grandrieux. E' ciò che sta oltre il fondo.
Meurtrière è la rappresentazione filmica dell'opera fotografica realizzata da Salvador Dalì e Philippe Halsman, In Voluptas Mors, riguardante sette corpi di donne nude che formano un teschio, simbolo perfetto per ciò che concerne il rapporto tra Eros & Thanatos.
Meurtrière è l'essere mostruoso, "La Cosa" presente in Malgrè la Nuit, che, in tutta la sua primordiale informità, si scioglie, si scompone in un corpo umano che, moltiplicandosi in più corpi, tenta(no) di riprodurre, di conseguenza, i movimenti e i suoni originali che caratterizzavano il Dio-mostro, e che rappresentano la deformità ontologica, potenziale, di ogni corpo. Come fosse una sorta di Mitologia greca della carne vista dagli occhi di un entomologo (cieco).
Meurtrière è, quindi, in un certo senso, l'opera(zione) "anticipatamente definitiva" di Philippe Grandrieux.
Ipnosi percettivamente sformante. Movimento orrorifico del corpo all'interno della catacomba dell'Immagine. Dentro un incubo in cui avviene una verticale marcia funebre per quanto riguarda la capacità riconoscitiva, nonché l'atto di "definire" - più che di vedere - dell'occhio. Per chi scrive, sì, Meurtrière è ciò che più si avvicina alla raffigurazione cinematografica dell'incubo. Più passa il tempo e più si ha la sensazione di sprofondare in esso. Più ci si sente stretti. Soffocare. Disorientati. Meurtrière è il film più baconiano di Grandrieux. Incubo, appunto, che diventa carne o, meglio, carne che diventa incubo: lo spettatore perde le coordinate della visione, e assiste ad inquietanti deformazioni visuali (corpi, che si moltiplicano continuamente, che sembrano non avere un inizio e/o una fine, con più o meno arti rispetto alla comune fisionomia umana, così come i volti che l'occhio del pubblico vede dannatamente mutati, ovvero impossessati, come fossero terribilmente indemoniati - si pensi all'inquietante penultima sequenza) che partorisce la sua mente, tutto ciò (anche) per via dei limiti del visibile e del rappresentabile che caratterizzano l'operazione sui corpi e sull'Immagine che Grandrieux (de)costruisce con Meurtrière, destabilizzando violentemente lo sguardo dello spettatore. Un'opera che emerge dall'oscurità, restando in essa o, più precisamente, a galla in questa oscura sostanza visiva. A fine visione, si ha la sensazione di essersi risvegliati da un sogno terribile. E si è in affanno. Si respira faticosamente. E non si è più sicuri di ciò che si è (s)visto. L'occhio, forse, ha visto ciò che non c'era - o, meglio, ciò che non può essere "catturato" e immagin(ific)ato senza il mezzo cinematografico -, tra il visibile e l'invisibile, incastrato in quello spazio, in quella distanza reale, in quella mancanza effettiva. Ecco cosa può un corpo. Ecco cosa può il Cinema.
Insomma, Meurtrière è il film più ansiogeno (ed ansimante) di Philippe Grandrieux.
Meurtrière è l'incubo (del corpo-per l'occhio-sull'Immagine).
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