Regia di Alan J. Pakula vedi scheda film
Con questa recensione mi procurero' molto sdegno e tante critiche negative, ma preferisco avere persone che mi accettino o comunque mi comprendano per quello che sono, piuttosto che fingere tutto il tempo; stesso comportamento ho verso gli altri. Ognuno di noi per questioni personali, convinzioni, invidia, per distinguersi dagli altri facendo gli alternativi o semplicemente per via di meccanismi compensativi che muovono il mondo, sente di odiare o comunque detestare qualcuno anche se non lo conosciamo. Per quanto riguarda il cinema e nello specifico le attrici, detesto fortemente Meryl Streep, attrice colma di isterismi da actor's studio, sopravvalutata all'inverosimile dai fanboy e dall'academy che le ha elargito ben 21 nomination (al momento in cui scrivo). Delle spiegazioni me ne sono date; il suo appoggio al Partito democratico (sappiamo l'orientamento politico dei giurati), crisi ultra decennale nella categoria attoriale femminile (le avrebbe avute tutte queste nomination negli anni 40' o 50' per esempio?), calcolo dell'attrice su come gestire la sua immagine (vedasi la sua adesione al movimento me too dopo che con Weistein era fortemente in amicizia… possibile che lei non sapesse?), il non essere troppo bella (l'academy non ama le attrici troppo belle, basta vedere Theron che tipo di perfomance ha dovuto fare per vincere) e la capacità di accaparrare ruoli anche in età avanzata da oscar. Un fronte anti-Streep per quanto ne so non esiste, o meglio, so che Katherine Hepburn la detestava come attrice per i suoi tic, mentre recentemente anche Dolald Trump ha dichiarato l'attrice sopravvalutata. Però è anche vero che tra nemici vi può essere rispetto e dopo aver visto La Scelta di Sophie di Alan J. Pakula (1982), anche chi la detesta comunque deve riconoscerne l’indubbia bravura in taluni film, come in questo caso.
La pellicola in questione è un melodramma con tre attori principali ambientato nell'america del 1947: Sophie (Streep); cattolica polacca trentenne residente a New York da tempo e con un passato orribile alle spalle nei campi di concentramento; Nathan, compagno di Sophie che è un ebreo irrequieto ossessionato dall'odio verso i nazisti e Stringo (MacNicol), giovane scrittore appena trasferitosi che entrerà sempre più in contatto con i due coniugi e poi mano a mano sentimentalmente con Sophie.
Un triangolo dove ogni vertice, rappresenta un archetipo; Sophie la colpa per essere sopravvissuta ad un inferno dove ha perso tutto, Nathan invece è la morte che sotto mentite spoglie attira la preda a sé per poi portarla verso una spirale autodistruttiva; ed infine Stringo, che incarna l'innocenza della vita, risulta un possibile nuovo inizio. Potrebbe uscirne fuori un film interessante, ed invece Pakula commette un errore imperdonabile; scade nel ricattatorio con un tasso drammatico sempre più esibito e sbattuto in faccia allo spettatore senza alcun garbo registico. La lunga durata (due ore e mezza), non aiuta poiché l'andamento del film è claudicante nel ritmo e nella gestione dei tempi drammatici. Altro problema è lo schema narrativo che risulta ripetitivo e logorroico nella rappresentazione, mi spiego; ogni volta che Stringo partecipa ad un'iniziativa dei due coniugi e tutto sembra andare per il meglio, dopo un po' Nathan improvvisamente si altera, cadendo preda di deliri e gelosie. Il tutto è ripetuto asfissiantemente per 6-7 volte sempre con il medesimo meccanismo. Se comunque la prima metà del film tutto sommato risulta valida ed il regista riesce a fare buon uso dei cromatismi e nella gestione degli spazi, Pakula nella seconda parte con due flashback di Sophie ci getta nell'orrore. Purtroppo per il cineasta, il suo è un inferno convenzionale e che non colpisce, poiché frutto di un calcolo tipicamente Hollywoodiano dei campi di concentramento e dei cliché alla base dei film sull’olocausto, senza contare la facilonerie di sceneggiatura che forzano la mano (tipo Sophie che deve sedurre il comandante tedesco per impadronirsi della radio… non sta né in cielo e né in terra che una Sophie denutrita, sfiancata e conciata da schifo, possa fare colpo su di un uomo… tra l'altro la stessa donna è dubbiosa del piano!). Fondamentale la pellicola risulta molto più efficace nel far percepire allo spettatore l'orrore del passato di Sophie senza mostrarlo, invece di quando ce lo sbatte in faccia. La Scelta di Sophie tanto terribile sulla carta, non ha molta forza poiché gestita e messa in scena con dei tempi del tutto sbagliati e per come realizzata, tanto che alla fine più che sua, la scelta sembra dei tedeschi. Il regista in effetti era riuscito bene a rappresentare l'inquietudine e l'onnipresenza dell'orrore del potere in Tutti gli uomini del presidente (1977), senza mostrare niente in modo esplicito, grazie all'ausilio delle parole; peccato che qui non abbia voluto replicare il medesimo meccanismo.
La pellicola quindi se tutto sommato risulta buona e sarà ricordata da qualcuno, è per merito di una gigantesca prova di Meryl Streep, alla sua miglior perfomance di tutta la carriera. Grande abilità nel mimetizzarsi nel personaggio ed essere un tutt'uno con esso grazie alla sua capacità di essere perfettamente aderente al ruolo. L'attrice non solo parla un perfetto inglese incerto e stentato come se non fosse madrelingua (recita anche una lunga parte in tedesco), ma riesce a far percepire con la sua mimica facciale e i calibrati movimenti degli occhi, tutto l'orrore vissuto per farne abilmente rappresentazione e racconto. Ne esce un ritratto di un personaggio distrutto e affranto, che sceglie una volontaria prigione perché non riesce a perdonare il fatto di essere sopravvissuta e per questo crea una finzione tramite le sue bugie, come palliativo temporaneo perché incapace di trovare qualcuno che possa in minima parte fare propria la sua sofferenza. A dispetto della felicità e dei colori caldi, il regista opta per colori freddissimi e la immerge nell'oscurità più tetra quando è sola. La gabbia è un elemento radicata in Sophie e non a caso è spesso inquadrata in spazi angusti o tra oggetti che simulano le sbarre (i fili che reggono il ponte, le sbarre del letto dietro di lei o la finestra di casa sua quando con un approccio quasi da documentario, il regista sfonda la quarta parete quando Sophie finalmente parla apertamente del suo passato). In una futura Top 100 delle migliori perfomance di sempre nella storia del cinema, questa avrà il suo posto sicuro (forse anche I Ponti di Madison County). Non è un filmone (il 91esimo posto nei 100 migliori film americani di sempre da parte dell'AFI è fuori dalla realtà), non è neanche interessante nel rappresentare l'Olocausto (l'opera mette in scena l'impossibilità di poter perdobare sé stessi per le proprie scelte) e la critica ufficiale ha ben poca considerazione verso tale pellicola andandoci giù anche in modo pesante (forse troppo). Un'occhiata anche solo per la prova recitativa della Streep gli và concessa, ovviamente in lingua originale.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta