Regia di Peter Landesman vedi scheda film
Lo sport come pretesto per raccontare altro. Magari quello che rimane del sogno americano messo a dura prova dalle logiche del capitalismo contemporaneo (Moneyball) oppure, nel tentativo di salvarne il salvabile, per dimostrare che esistono ancora spazi di manovra per riuscire a tenerlo in vita. A quest’ultima opzione crediamo si riferisca "Zona d’ombra", il lungometraggio di Peter Landesman, passato alle cronache per la presunta matrice razzista che avrebbe portato i membri dell’academy a escludere Will Smith dalla cinquina dei migliori attori dell’annata. Va da sé che il rischio maggiore per un film del genere è quello di essere visto sulla scia della curiosità scatenata dalle polemiche di cui dicevamo e quindi di essere giudicato sulla base della performance di Smith invece che per il complesso degli elementi che lo costituiscono. E infatti a stupire non è tanto la performance pur buona dell’attore, pronto a lasciarsi indietro la sua immagine più ludica e guascona per immergersi in quella adulta e drammatica del suo personaggio, quanto piuttosto la mancata attenzione dei media rispetto alla delicatezza dei contenuti storia che, attraverso la figura del neuropatologo di origine africana Bennet Omalu, racconta i tentativi di mistificare i risultati delle ricerche effettuate dal medico che riuscì a dimostrare il legame tra la malattia degenerativa patita da alcuni campioni del football americano e lo stress fisico causato da questo sport. Siccome si parla di una storia vera e soprattutto di una scoperta che trattando dei rischi per la salute degli atleti ha minato alla base dell’immagine del gioco più amato d’america, "Zona d’ombra" nasce per essere qualcosa di più che una passerella messa a disposizione del divo di turno. Certo se poi si entra nel merito, a farla da padrone in termini di visibilità è comunque il mimetismo di Will Smith e le capacità fisiche ed espressive che gli permettono di scomparire all’interno del personaggio. Una scelta che penalizza non solo il resto degli attori - come, per esempio, Gugu Mbatha-Raw nella parte della moglie di Omalu - chiamati a recitare caratteri funzionali alla progressione narrativa e perciò incapaci di vivere di vita propria, ma anche l’efficacia di una denuncia che così facendo rimane tutta in superficie.
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