Regia di Pascale Breton vedi scheda film
Chissà se il ritorno al lungometraggio dopo undici anni dall’esordio con Illumination che ottenne riconoscimenti ai festival di Torino e Rotterdam, è dettato dall’adesione della regista Pascal Breton alle posizioni più critiche portate avanti da autori più affermati circa la banalizzazione e la sovraesposizione delle immagini da cui derivano contenuti insignificanti? Sembrerebbe che il nuovo film indichi con chiarezza il recupero di una interpretazione più colta dell’immagine che non può prescindere dalla conoscenza della cultura e delle arti. Ad un primo esame Suite armoricaine potrebbe anche coincidere con una rielaborazione temporale e autobiografica della regista stessa, che in questo lasso di tempo ha acquisito maturità e sicurezza che esprime in una forma compiuta e senza mascheramenti. La protagonista, Francoise, è un’insegnante di storia dell’arte che dopo tanti anni vissuti a Parigi torna per una cattedra a Rennes, suo luogo d’origine. Sarà l’occasione per fare il bilancio della propria vita e attraverso vecchie e nuove relazioni ritrovare sé stessa. Scontato che una sintesi del genere non crei aspettative particolari e che al massimo si possa pensare ad una versione intimista de Il grande freddo, ma la Breton invece non solo non si risparmia in soluzioni formali diversificate, ma soprattutto adotta una robusta stratificazione del racconto su tanti piani fino a creare una vera e propria orchestralità narrativa che sfocia in un epilogo fin troppo prolungato ma che ripaga e soddisfa pienamente lo spettatore coinvolto non più come soggetto critico ma come elemento spontaneo e percettivo. Suite armoricaine mantiene per tutta la sua lunghezza una specificità di genere molto indefinita, ma sa crescere seppure lentamente e conquistare lo spettatore non tanto per il susseguirsi di eventi talvolta prevedibili, ma perché lo trasporta dentro la storia senza immedesimazione ma con il riconoscimento di uno stato emotivo, di un vissuto che pure non appartenendogli sente come fosse suo. Volessimo rifarci a qualche teoria sul cinema più recente, si potrebbe dire che il film può spiegare quello che lo studioso Noel Carroll ha definito nel libro La filosofia del cinema (2008) in cui una parte del testo verte su “come viene recepito il film”. E cioè, traducendo ancora dallo stesso Carroll, ”laddove lo spettatore non si sente solo destinatario del messaggio del film che implica la decifrazione a secondo delle proprie capacità di lettura, ma lo riporta ad una dimensione più naturale nella quale prevale la predisposizione a riconoscere l’immagine ed a percepire totalmente l’essenza del personaggio”. Francoise rileggerà il suo vissuto attraverso i ricordi, i nuovi incontri e i ritrovamenti, nei segni che ricostruiscono il senso dei giorni della sua vita. Assume un’importanza basilare la compenetrazione fra eventi quotidiani e il suo lavoro, l’osservazione dentro di sé si trasferisce dentro l’opera pittorica,nelle parole delle sue lezioni, i due elementi avanzano con lo stesso passo e la piena comprensione dell’uno permette la decifrazione dell’altro, per certi versi ricorda la struttura psicologica de Il giardino delle delizie di L.Majewski. La Breton non si accontenta di una accattivante pseudo analisi di un personaggio, quello di Francoise a cui dà il volto un’intensa Valerie Dreville, ma attraverso una fitta rete relazionale parla di identità, di origini, di crisi della modernità. I ricordi del nonno, un contadino e guaritore bretone, si intrecciano con il riaffiorare di tradizioni e il desiderio di immergersi in una natura più vicina all’uomo, e se da qui il messaggio può anche sembrare leziosetto o troppo ingenuo, la Breton incastrando vedute dei luoghi con raffigurazione pittorica rievoca quell’Arcadia mitologica che si trasforma da luogo idilliaco esterno al mondo interiore della protagonista a cui ognuno dovrebbe cercare di tendere. Notevole l’uso della musica in un film dove l’appendice retorica può risultare sempre in agguato sottolineando o scandendo i passaggi più drammatici o evocativi. L’apporto musicale è attentamente funzionale a separare l’immagine dalla sequenzialità emotiva col risultato di non appesantire mai la storia e di un piacevole straniamento. La regista gestisce alla perfezione il personaggio protagonista che a secondo delle vicende che percorre, una complicata storia d’amore, l’amicizia ritrovata, la dimensione del lavoro, la rivisitazione storica e tradizionale, una versione moderna di maternità e di corresponsione affettiva, pone Francoise come testimone di tanti aspetti diversi della vita in cui non sempre si è i protagonisti attivi ma con una funzione ugualmente significativa.
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