Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Il mio voto finale sul Disprezzo non può che risultare dalla media di due valutazioni distinte e discordanti: un 9 per una messa in scena sfavillante e rivoluzionaria, un 4 e mezzo per una sceneggiatura noiosissima e soporifera= 6,75.
VOTO: 6,75 su 10
Il Disprezzo di Jean Luc Godard l'avevo già visto in cassetta doppiato in italiano e mi aveva fatto sbadigliare e addirittura addormentare. Rivisto sul grande schermo in versione originale e restaurata, ho potuto coglierne aspetti positivi che mi erano sfuggiti alla prima visione.
E' indubitabile la bellezza di gran parte delle inquadrature, in particolare quelle della Villa razionalista di Malaparte a Capri con la sua assurda e scenografica scalinata (utilizzata anche come manifesto per il Festival di Cannes nel 2016). Anche nella lunga sequenza nell'appartamento romano presenta un innegabile fascino nella costruzione e composizione della inquadrature. E l'utilizzo originale della musica, con il tema ricorrente a inondare le scene, coprendo a volte le voci degli attori.
Avendo nel frattempo imparato che il tratto distintivo della Nouvelle Vague era le rottura delle regole che fino allora avevano governato la settima arte, non ho potuto non notarne l'infrazione nei titoli di testa da ascoltare, recitati a voce, invece che da leggere sovra impressi sullo schermo e che si concludono con la citazione-manifesto di André Bazin:“Il Cinema sostituisce al nostro sguardo un mondo che si accorda ai nostri desideri“. Ed i movimenti indisciplinati della macchina da presa quando il suo sguardo si muove tra i due protagonisti dialoganti senza rispettare il momento in cui ciascuno sta parlando, ma inquadrandone a volte il favellare, a volte la reazione alle parole dell’altro.
Avendo nel frattempo visto videosaggi che citano Il Disprezzo come un film che ha lasciato un segno per l’uso innovativo del colore, basato su una tavolozza trina di blu, rosso e giallo, ho prestato solerte attenzione ai tre colori, fin dall'inizio quasi sempre presenti in ogni inquadratura, dall'Alfa rossa fiammante ai maglioncini o accappatoi gialli, al blu di un ombretto o delle poltrone o del mare e ritornano persino nella colorazione di occhi e bocca delle statue classiche.
Se, visivamente, sono riuscito finalmente a cogliere il valore dell'opera, tuttavia i dialoghi e la sceneggiatura hanno confermato l'opinione negativa che mi ero già formato. La storia della crisi di un matrimonio tra uno scrittore / sceneggiatore (Michel Piccoli) ed una dattilografa (B.B.) sullo sfondo della Cinecittà anni 60 nemmeno stavolta mi ha appassionato. Forse sarà che ho problemi con la prosa di Moravia, autore del romanzo da cui il film è tratto, ma la sceneggiatura mi è sembrata noiosissima oltre che parecchio pretenziosa, scevra di passione per cercare piuttosto l'intellettualismo esasperato e pure inutilmente criptica: sinceramente non ho capito perché Camille disprezza Paul né la cosa è riuscita ad interessarmi in alcun modo.
Posso aver apprezzato vedere Fritz Lang nel ruolo di se stesso in qualità di regista alle prese con l'Odissea, scontrandosi con un dittatoriale produttore americano (Jack Palance) che, quando non è d'accordo con l'autore, non sa far di meglio che lanciare e sbattere a terra le “pizze” del girato e affermare"Quando sento parlare di cultura metto mano al libretto degli assegni". parafrasando i nazisti, che invece mettevano mano alla pistola. Ma sentire Brigitte Bardot, fin troppo splendente nella sua bellezza irreale per apparire credibile nell'insicurezza con cui chiede a Paul se gli piacciono le varie parti del suo corpo, pronunciare quei dialoghi irritanti ed infiniti mi ha fatto nuovamente sprofondare nella noia, soprattutto nella scena dell'appartamento che a mio avviso andava ben ben sforbiciata. E le elucubrazioni di Paul su Omero, cercando di stravolgere il senso dell'Odissea per farle parlare essenzialmente di corna: da prenderlo a schiaffi, altro che quello che lui assesta a Camille! Anche il fatto che i personaggi parlino lingue diverse per cui ogni frase deve obbligatoriamente essere tradotta e ripetuta da un'interprete alla lunga stufa (ho letto che nella versione italiana tutto era stato doppiato nella nostra lingua, quindi pareva che i vari personaggi ripetessero inutilmente a pappagallo le stesse frasi: peggio mi sento!).
Il mio voto finale sul Disprezzo non può quindi che risultare dalla media di due valutazioni distinte e discordanti: un 9 per la messa in scena, un 4 e mezzo per la sceneggiatura = 6,75.
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