Regia di Jean-Luc Godard vedi scheda film
Un dramma sospeso, allo stesso tempo palpabile e invisibile.
«Ogni mattina, per guadagnarmi il pane, io mi reco al mercato dove vendono le bugie. E pieno di speranze, mi metto anch'io in fila coi venditori»
Il cinema è una bugia. L'amore è una bugia. La vita è una bugia. Ciascuno dei personaggi de Il disprezzo racconta bugie. A se stesso e agli altri. Cinema, amore, vita, qualunque aspetto dell'esistenza, non è altro che un contratto stipulato dall'individuo fra i propri desideri e i propri bisogni reali. Un compromesso. Lo sceneggiatore (Piccoli) desidererebbe scrivere copioni solo per opere teatrali, ma ha bisogno di soldi: il prezzo che deve pagare è accettare sceneggiature cinematografiche oscene di film osceni; deve porre sul piatto persino la sua bella moglie, per accattivarsi la simpatia del produttore, e così facendo, mettere a rischio il suo matrimonio. La moglie (Bardot), viceversa, vede nel matrimonio, e nel bell'appartamento romano, un miglioramento del proprio status sociale: il prezzo pagato, salatissimo, è essere una pedina nelle mani del marito. L'amore disinteressato è raro e incompreso. Altrimenti è un patto fra due contraenti, in virtù del quale l'interesse reciproco, il do ut des, sostituisce il diritto-dovere affettivo.
Il regista (Fritz Lang) è cosciente di stare girando un film con ogni probabilità brutto. Reclama quietamente la propria libertà intellettuale rispetto al produttore, discute, analizza le varie possibilità: ma sempre con amaro disincanto. Senza passione. La sua proficua stagione di artista della macchina da presa è giunta al tramonto, ed ora il cinema, è solo un dovere (il superamento di questo stallo autoriale potrebbe essere la Nouvelle Vague?). Ma lo stesso produttore (Palance), che vediamo sempre così vivace, entusiasta, impositivo nel suo essere padre e padrone della macchina cinematografica, deve rispondere in realtà a una coscienza superiore a lui, che sono i gusti del pubblico, i generi in voga al momento, il budget. Questo benedetto film sull'Odissea è un film che non piace a nessuno (e che non vorrebbe girare nessuno), né allo sceneggiatore, né al regista, né tanto meno al produttore: è un mostro passeggero figlio del tempo che obbliga ciascuno dei componenti della macchina filmica a svendersi per guadagnarsi il pane. E' il simbolo definitivo del fallimento del cinema di papà.
Le Mépris è una riflessione metacinematografica molto suggestiva, molto pregna; ma è anche un dialogo sull'amore, e sull'instabilità intrinseca della vita di coppia. Godard insiste sul tema della sequenza lunghissima, e come in Fino all'ultimo respiro fa parlare per lungo tempo i suoi due protagonisti, l'uomo e la donna. Ma nella sua opera prima il discorso fra i due amanti, a letto, era futile e inessenziale ai fini della già esile trama: era una volontaria presa in giro dei codici convenzionali della sceneggiatura. Qui la futilità è solo in apparenza. Viene scoperchiato tutto il substrato di menzogne, di cose non dette e sottaciute, di piccoli ricatti che covano sotto la tranquilla apparenza di una felice e giovane coppia. Il disprezzo verso l'altro (e anche un po' verso se stessi, e perché no, verso questo mondo che ci obbliga a fare cose che non vorremmo fare) è la risposta.
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