Negli ultimi anni il festival di Locarno si è distinto per dare voce alle espressioni più radicali e innovative del nuovo cinema italiano, diventando, grazie alla lungimiranza dei vari direttori, una sorta di isola felice per le libertà del nostro - e non solo - cinema d'autore. Pensiamo a certi titoli rimasti nella memoria per l'intransigenza dei loro contenuti e, senza andare troppo indietro, a film come "Sangue" di Pippo Delbono, e a "Pays Barbare" di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, capaci di guardare all'Italia e alla sue tradizioni senza alcun tipo di filtro e di compromesso rispetto alla verità delle cose. Della stessa radicalità ma con toni decisamente più poetici, si nutre il film italiano in concorso in questa edizione del festival, perché "Bella e perduta" del regista e documentarista Pietro Marcello contiene, all'interno delle sue molteplici stratificazioni, una visione altrettanto chiara e consapevole della realtà del nostro paese. Marcello per raccontare l'italia contemporanea e, in particolare, quella del territorio che circoscrive la provincia casertana, dove egli è nato, parte da un personaggio reale, il pastore Tommaso Castrone che decise di occuparsi della reggia di Carditello nel tentativo di salvarla dal degrado in cui lo Stato l'ha lasciata; fondendo tale racconto alla cronaca dei nostri giorni, quella che si riferisce alle problematiche legate alla cosiddetta Terra dei fuochi, l'autore dà vita a una sorta di fiaba moderna, in cui il viaggio di Pulcinella e del bufalo Sarchiapone diventano il modo scelto dal regista per recuperare la bellezza dimenticata e ancora oggi rintracciabile nel nostro territorio. Un atto a dir poco eversivo, se pensiamo che Marcello, come di consuetudine, costruisce la sua storia privandola di quelle convenzioni narrative più tradizionali, che si identificano nello sviluppo lineare della trama e nella necessità di protagonisti dalle motivazioni chiaramente delineate. Al contrario, il regista casertano non solo si adopera per privare i caratteri della centralità che normalmente spetterebbero loro ma, in una sorta di staffetta cinematografica, decide di spostare continuamente il punto di vista da un personaggio all'altro, costruendo un coro di voci, di sensazioni e soprattutto di sguardi che, nel complesso, compiono una vera e propria riscoperta del paesaggio italiano, deturpato e offeso dalle barbarie degli uomini, e in questo caso, invece, collocato con tutta la sua bellezza dentro il cuore del film.
Consegnando all'intervista realizzata con il regista, il compito di raccontare al lettore le vicissitudini intercorse durante la lavorazione della pellicola e del conseguente stravolgimento dell'idea iniziale dell'opera, quello che preme sottolineare in questa sede è innanzitutto la continuità che "Bella e Perduta" stabilisce con il resto della filmografia di Marcello. Perchè a partire dai personaggi della vicenda, tutti, compreso Pulcinella - condannato al suo ruolo di maschera e di tramite tra i vivi e i morti - sono ascrivibili a quella schiera di umiliati e offesi, di cui il cinema del regista si prende la briga di mostrare nel loro epico eroismo (basti pensare al bufalo Sarchiapone condannato in anticipo dal solo fatto di non poter fornire alcun beneficio ai suoi possessori), per continuare con il desiderio di riscoperta e valorizzazione del territorio (dal casertano la vicenda arriverà a toccare le pendici della Tuscia) e della sua storia, "Bella e perduta" è contaminato dai germi di quel cinema poetico e sociale che Marcello aveva rappresentato attraverso opere come "Il passaggio della linea" (2007) e "La bocca del lupo" (2009). E sempre per restare in tema di analogie, come non citare il montaggio della fedele Sara Fgaier, qui anche in veste di produttrice, per il modo in cui durante il film valorizza gli echi di quei contrasti tra natura e civiltà che erano stati al centro dell'opera di quel Artavazd Pelešjan, il grande regista armeno che Marcello aveva incontrato ne "Il silenzio di Pelajan", presentato al festival di Venezia del 2011 e poi letteralmente nascosto agli occhi dello spettatore. Ora, se consideriamo la colonizzazione culturale compiuta dalla televisione negli ultimi vent'anni, il film di Pietro Marcello potrebbe apparire come un'opera fuori dal tempo e a dir poco presuntuosa nella sua evidente diversità. Se, al contrario, ragioniamo in termini di investimento culturale, e in questo caso non possiamo non citare l'indispensabilità di Paola Malanga che dopo "L'infinita fabbrica del Duomo" ritroviamo in veste di produttrice, allora "Bella e perduta" diventa qualcosa da conservare con cura e da far vedere al cinema e nelle scuole, per risvegliare le coscienze e per guarire il nostro modo di vedere.
(pubblicato su ondacinema/speciale 68 festival di Locarno)
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