Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
Scene di lotta di classe(?) a Calais secondo Bruno Dumont, che applica lo stesso rigore del suo cinema naturalista alla commedia grottesca. Forse si ride, ma si penserà di più.
“Io sono un filmmaker non della collettività, ma dell’individuo. Non so cosa sia la società. (B.Dumont)
Incoraggiato dai buoni riscontri della serie tv P’Tit Quinquin, Dumont trasferisce sul grande schermo la lettura tragicomica della realtà, accostando mondi in apparenza distanti e in opposizione dentro una visione della vita piuttosto nichilista e con poche speranze. La cifra umoristica e grottesca di Ma Loute è quella che colpisce da subito, resterà come una costante sovrapposizione a quella imprescindibile del dramma. Dumont la sfrutta strumentalmente per portare verso la riflessione e non verso il rifiuto, l’attenzione dello spettatore che si misura con situazioni tanto reali quanto simboliche che arrivano a tirare in ballo i divieti fondanti delle società civilizzate. Per rendere discutibile la trasgressione morale il regista agisce sulla trasgressione visiva, sulla credibilità dell’immagine, ottenendo alla fine un’immersione totalizzante nelle zone d’ombra più nascoste dell’anima e nell’esplorazione degli aspetti più macabri. Ma Loute, un giovane che fa parte della numerosa e povera famiglia Brufort, vive raccogliendo cozze sulla spiaggia, aiuta il padre a traghettare i ricchi vacanzieri portandoli da una riva all’altra scongiurando le insidie delle maree. Siamo nel distretto Nord Pas De Calais di Francia del 1910, come ogni anno la famiglia borghese e decadente dei Van Peteghem trascorre in quei luoghi le vacanze estive, e la giovane Billie colpirà il cuore di Ma Loute. Intanto le misteriose sparizioni di alcuni turisti spingono la polizia ad indagare. Non solo sono evidenti le analogie con P’Tit Quinquin dal punto di vista narrativo, ma alcuni elementi costitutivi del racconto fanno di Ma Loute un film diverso dai precedenti nella forma esteriore, mentre nei contenuti rispetta la stessa linea coerente. Intanto la location, l’attrazione verso i luoghi che rimandano ad un eden desiderabile che metta in rapporto uomo e ambiente, alla ricerca di una dimensione naturale come unico scenario possibile per far affiorare la nuova umanità e il recupero relazionale. Gli interni di scena sono quasi inesistenti, nel mondo dei ricchi Van Peteghem impegnati all’autocelebrazione di casta e a decantare il paesaggio, stessa cosa dentro la catapecchia dei Brufort dove si consuma ogni efferatezza compreso il dovere della sopravvivenza. La bellezza particolare della disarmonia dei volti che solo le giovani anime sfiorano, altro elemento ricorrente, è parte intrinseca di Ma Loute e di Billie, sono il futuro ma anche il frutto del passato più recondito, sono i possibili protagonisti della nuova umanità che deve trarre la forza per crescere dall’imperfezione del mondo. Una recitazione sopra le righe di tutti i personaggi contribuisce ad esaltare una vacuità barocca e disperata diventando loro stessi oggetto di osservazione e di negazione della realtà.
La figura più emblematica è rappresentata dall’ispettore capo Machin, obeso, dal basso livello intellettivo, privo del più elementare senso intuitivo. E’ il personaggio chiave che attraversa il racconto e paradossalmente risulta quello più disturbante. Caricaturale all’eccesso, pachidermico nei movimenti e ancora più lento nei pensieri, che come ama affermare il regista:”..guarda la terra per vedere il cielo..” e nel suo caso si rotola in terra in diverse occasioni.. La sua indagine non riguarda i fatti in sé, ma rappresenta l’esplorazione e l’analisi del genere umano, di fronte alla quale non c’è che la sconfitta, l’incapacità di comprendere, che si risolve nel rifugiarsi in quella dimensione fisica esagerata, Dumont ne fa un’effige scandalosamente disperante e desolata. A metà strada della scala sociale, corpo deforme della società materialista, devoto verso i potenti e inutile verso i derelitti, Machin si avvicina molto al personaggio di Octave nel capolavoro di Renoir La regola del gioco, a cui forse Ma Loute deve anche qualche cosa. L’oggetto comico si trasforma nello sguardo su di esso, la pesantezza di Machin è la grevità del corpo sociale intero, protetto dalle tare culturali, dal pregiudizio storico, dai luoghi comuni. Trasgressione e deformazione vanno di pari passo tra posizioni sociali differenti per unirsi in una sodale incomunicabilità, e mentre si cerca letteralmente di sgonfiare il corpulento commissario l’orrore si espande come una marea inarrestabile. Ma Loute sembra fatto per dividere il pubblico che subendo l’assenza di giudizio dell’autore si sente chiamato in causa , anche suo malgrado.
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