Regia di Bryan Singer vedi scheda film
Capitolo finale della trilogia delle origini dei mutanti, con un Singer senza leggerezza
Non ha bisogno di altri capitoli la trilogia delle origini dei mutanti Marvel, con un film per ogni decennio, dagli Anni 60 agli 80. Se la serie era partita con brio, sul solco di un ironico Bond d’annata nella prima pellicola, la consegna a Singer del franchise ha regalato un incupimento dei toni e una superfetazione di effetti e di impianto generale.
Dopo il viaggio nel paradosso temporale del capitolo precedente, in cui vecchi e nuovi mutanti si trovavano riuniti in una perfetta riappropriazione della saga da parte del regista originale, Apocalypse rappresenta un salto verso una nuova narrazione con un meta-mutante mitico capace di assorbire i poteri di altri corpi prendendone letteralmente possesso. Purtroppo ogni implicazione religiosa o filosofica si stempera nella sua esposizione verbale, presto sbrigata in fase introduttiva, dopo un prologo al tempo degli Egizi ed una trasmutazione attuata con liquidi dorati e luce solare, giacigli in pietra mobili ed effetti tonitruanti. Il risultato rende Apocalisse e i suoi quattro cavalieri più alieni che mutanti, in una copia sbiadita ma sovraccarica di Stargate di Roland Emmerich.
Con un protagonista che non si disfa mai delle pesanti suppellettili, Apocalisse è ritratto come un mutante camp, sorta di Priscilla senza deserto né ironia o paillettes, tanto che la super-nemesi di turno sembra un reclutatore in giro per locali alla ricerca della quaterna perfetta di accoliti da plasmare, fa le veci di regista e di costumista modellando per ognuno un abito consono all’occasione, con tanto di trucco sul viso e accessori ad hoc per uno spettacolo di effetti speciali con cui rileggere e trasformare il mondo. I mutanti sono sempre stati diversi per definizione nei film di Singer (anche per la sola scelta di McKellen per Magneto) e la sottotrama della discriminazione gay si affianca alla segregazione razziale con diretto riferimento al genocidio nazista. Qui, sebbene il rapporto con il genocidio degli ebrei permanga, la chiave di lettura queer sembra diventare inconsapevole e rasenta il ridicolo col meta-mutante ossessionato dal look e dalla metamorfosi di tutto a sua immagine.
Inoltre continua da parte del regista l’acquisizione della piena proprietà della saga inserendo personaggi e citazioni anche dal primo film, apocrifo, assieme a riferimenti alla prima trilogia adulta, riannodando in questo capitolo conclusivo le fila e le trame di tutti gli altri. Purtroppo tutto è già stato detto meglio. La perenne amicizia contrastata tra Xavier e Magneto ricalca le medesime dinamiche di sempre (Magneto cattivo ma non troppo, Xavier illuso e ottimista), con una sezione preliminare dedicata al signore dei metalli pacificato e in incognito in Polonia (in una fonderia, ovviamente), finché la famiglia non gli viene sterminata e lui reagisce di conseguenza. Dopodiché Magneto, passato al lato oscuro, rimane un pupazzetto privo di consistenza, una action figure del suo personaggio che manipola i metalli dell’intero pianeta con distruzione a profusione, fino all’inevitabile (temporanea) redenzione.
Recuperando l’agente della Cia McTaggert, si scoprono ellissi operate sulla trama (una lunga parentesi romantica con Xavier) che il secondo film aveva evitato; il ritorno di Havoc, fratello di Scott Summers (Ciclope) introduce il nuovo eroe: ma entrambi i personaggi sembrano solo funzionali a queste finalità, avendo poi poco sviluppo ulteriore. Sebbene la scelta del cast, tra nuovi volti e il consueto saccheggio del Trono di Spade (Sansa Stark dopo Tyron Lannister), sia abbastanza riuscita, le dinamiche dei personaggi noti non avanza dallo stallo della loro stessa definizione: Bestia educato quanto animalesco in versione blu, Raven eroina inconsapevole, Xavier zelante utopista, Magneto rancoroso ma incerto criminale. Più spazio viene lasciato alle new entry, il tedesco che si definisce solo con un nome inglese (Nightcrawler), teleporta dall’aspetto di pseudo-demone, Ciclope incapace di gestire le proprie capacità oculari, Jean Grey fenice a sua insaputa (con poteri la cui entità viene definita esuberante senza spiegazione). Molto meno si sa dei cattivi Angelo, in versione metallica di Arcangelo, e Psylocke, con Olivia Dunn costretta quasi per contrappasso a passare all’eloquio accelerato di The Newsroom ad una quasi totale afasia, forse perché costretta in un abitino sado-maso dalle imbarazzanti mutandone a fantozziana vita alta; Ororo, infine, rimane abbastanza fedele ai canoni della definizione classica, grazie anche al riscatto finale, con lo spostamento delle sue origini dall’Africa continentale all’Egitto. Si staglia la figura di Quickilver, qui noto solo come Peter Maximoff e figlio di Magneto (subito sacrificato nel MCU che ha mantenuto solo la sorella Wanda), ironico corridore che rallenta il tempo e gioca con la propria velocità in una sequenza visibilmente divertita che diventa una parentesi leggera in un film che non riesce ad esserlo mai.
Non manca la presenza di Wolverine (sempre uguale perché statico nel tempo), interprete di un cameo nel primo film, protagonista del secondo e a cui nel terzo è dedicata una lunga scena preliminare alla sua saga personale (nell’Arma X già affrontata anche in Deadpool quest’anno), che diventa ormai una sigla per ricorrente per un film di mutanti, nonché personale feticcio di Singer.
Gli Anni Ottanta, con Reagan e la minaccia atomica, sono solo uno sfondo di permanenti iperossigenate e poster cinematografici, come già il decennio precedente nel penultimo film, mentre l’estetica generale del film è una versione retrograda del primo X-Men (2000), potenziata però con effetti speciali ingombranti e una trama risicata, movimenti di macchina virtuali quanto inutili e una recitazione non ben articolata. Sotto il trucco di Apocalisse c’è un attore capace come Oscar Isaac, di cui però nessuno può accorgersi, mentre Fassbender e Lawrence rimangano fissi in un’unica espressione, contrariata e imbronciata.
Inoltre la trama si esaurisce nel solito confronto del gruppo dei mutanti, compattato dall’emergenza, e i cattivi, con il meta-mutante infine sconfitto da un colpo di Fenice e ridotto alla sua debole essenza umana, fino all’implosione. In fondo Singer diventa l’immagine di Apocalisse, regista esteta che riunisce un cast per uno scopo esagerato ma viene annientato dalla stessa megalomania del progetto che, strato dopo strato, rivela la pochezza della sua sostanza e la cui ironia è soltanto tremendamente involontaria.
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