Regia di Dani de la Torre vedi scheda film
Quante volte il cinema ha battuto la strada dello psicopatico misterioso che inizia un gioco mortale con il malcapitato di turno? E quante altre volte il cinema ha utilizzato lo speed movie per creare situazioni claustrofobiche dal grande impatto adrenalinico? Molte. Eppure la differenza la fa sempre il come e non il cosa. Un déjà vu non è necessariamente qualcosa di negativo. Il discorso vale per il primo lungometraggio di Dani de la Torre, candidato come miglior pellicola ai Goya 2016 e tutto sorretto dal solido lavoro di un attore di razza come il galego Luis Tosar e dal lavoro certosino di tecnici del suono, montatori, effettisti e scenografi che hanno saputo confezionare con mestiere un film tecnicamente molto complesso.
Il film può essere improbabile quanto si vuole nello sviluppo narrativo quanto nelle svolte, ma non è questo che conta. Non è mai stato questo ciò che conta in un film. Ma qualcuno ancora lo crede. È il gioco simbolico, tematico, la narrazione per immagini, l’emotività anche intellettuale evocata dalle immagini e dal loro relazionarsi, dagli elementi filmici primari come attori e ambienti fino allo sguardo registico che non deve necessariamente essere quello di un poeta o di un politico morettiano. Il cinema è un’altra cosa e gli spagnoli, con buona pace dei detrattori, fanno il miglior cinema europeo del nuovo secolo. Sanno usare il genere, fanno commedie che battono anche quelle d’oltreoceano e sanno raccontare il contemporaneo con lucidità e con gusto estetico.
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