Regia di Kevin Costner vedi scheda film
Un soldato decide di morire, perché non vuole passare il resto della vita con una gamba sola: monta su un cavallo e va incontro al fuoco nemico, ma resta miracolosamente illeso. O forse invece no: quel soldato, John Dunbar (“un nome che non aveva mai significato niente per me”), in realtà rimane ucciso sul campo di battaglia; al suo posto, dopo quella specie di suicidio rituale, nasce un uomo nuovo, con un nuovo nome e una nuova vita. Recupera l’armonia con la natura (la scena più toccante è quella in cui il lupo Due calzini, vincendo l’innata diffidenza, viene a mangiare dalle mani dell’uomo), scopre che gli indiani non sono nemici e che invece i selvaggi sono i suoi ex commilitoni. Fa la guerra per difendere il villaggio minacciato, non per le strategie decise nei lontani palazzi del potere. Impara che i bisonti sono necessari per la sussistenza, e che ucciderli per il puro gusto di farlo è un delitto che va punito con la massima severità. Un’avvincente parabola esistenziale che allo stesso tempo recupera la migliore lezione del cinema USA anni ’70, quella di Piccolo grande uomo e Corvo Rosso non avrai il mio scalpo. Un solo difetto: dà fastidio che il bianco sposi proprio la bianca allevata dagli indiani anziché una squaw della tribù, come se avesse un’inconsapevole resistenza ad assimilarsi totalmente (almeno su questo punto l’antesignano L’amante indiana nel 1950 era un passo avanti). La versione integrale, che non si vede quasi mai in tv, chiarisce certi meccanismi narrativi: per es. si scopre perché, durante la caccia al bisonte, una notte Costner dorme separato dagli altri.
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