Regia di Luchino Visconti vedi scheda film
Al suo esordio registico nel 1943, il trentaseienne Visconti dà vita a quello che sarà sempre considerato il punto di riferimento del Neorealismo cinematografico.
In uno spaccio/posto di ristoro lungo il Po arriva un vagabondo di nome Gino (Massimo Girotti, al tempo ventiquattrenne). Ripreso di spalle entra nel locale e si avvicina al banco.
Lì c’è Giovanna (Clara Calamai, sostituta di Anna Magnani incinta), la giovane moglie dell’anziano, rozzo e corpulento proprietario del locale, il Bragana (Juan de Landa doppiato da Gino Cervi)
La macchina ora riprende Gino di fronte, nello scambio di sguardi fra i due c’è già tutta la storia, passata, presente e futura.
Gino è il classico déraciné che oggi diremmo homeless, una volta vagabondo, cambiano le parole la miseria resta uguale.
Aria sfrontata di chi non le manda a dire, avvertiamo un oscuro fondo di malinconia nei suoi occhi chiari. Visconti traghetta con abile progressione la sua metamorfosi da spiantato senza patria a uomo innamorato e disorientato, tutto gli sfuggirà da quelle mani che all’inizio del film sembravano contenere il mondo.
Infatti sistema la fontana fuori dal negozio, ripara il motore della vecchia auto del ciccione dopo averla manomessa per spedire il padrone in paese a comprare il pezzo mancante, mette il catenaccio alla porta del locale e senza troppi complimenti sistema anche Giovanna.
La quale, peraltro, non aspettava che di essere sistemata dal baldo giovane con spalle forti (e pelose, piccolo particolare che si fa notare, oggi che il mondo è dei glabri).
L’inizio è dunque spiazzante rispetto all’evoluzione successiva, Visconti impiega due ore per farci dimenticare i mitici Cora/ Lana Turner e Nick / John Garfield deIl postino suona sempre due volte, e non parliamo della coppia Nicholson/Lange.
Gino e Giovanna non sono prodotti da esportazione, vivono in un’Italia povera e fascistizzata, addirittura nel ’43 in guerra, ma Visconti non fa incursioni nel politico, astrae e depura, anche se la Storia è lì, con le sue piaghe, il sangue che bolle come sempre e Giovanna che sembra un caso da manuale dei tempi d’oro della donna-oggetto.
Un passato di miseria e umiliazione (lei dice con gentile eufemismo “ gli uomini mi offrivano da bere”) non può che finire con un benestante esemplare della razza suina che le fa fare la serva al banco del bar e addirittura vorrebbe anche un figlio da lei.
Cosa che lei invece metterà improvvidamente in cantiere con Gino, in una svolta troppo traumatica della storia per far pensare al dolo. Un figlio è un elemento extra, estraneo al romanzo di M. Cain e alle versioni cinematografiche americane, fedeli ai canoni del thriller/noir codificati da Dashiell Hammet.
Visconti fa altro, crea un sistema di raffinata complessità che sta alle origini di un genere ma se ne defila come voce solitaria.
Rende lo scenario gradualmente più buio, il bianco e nero è una scelta difficile e felice, le ombre assediano e prendono il posto delle caligini lattee delle nebbie padane, la luce resta solo negli occhi dei due amanti, nei primi piani all’inizio sognanti e man mano sempre più disperati.
Al suo esordio registico nel 1943, il trentaseienne Visconti dà vita a quello che sarà sempre considerato il punto di riferimento del Neorealismo cinematografico.
Ossessione è un film che segna una forte distanza dal cinema dell’epoca (telefoni bianchi, film edificanti di stampo fascista) e senza nulla concedere al clericofascismo imperante mette in scena un cupo dramma di amore e morte, adulterio e ribellione femminile, miseria morale e aspirazione fallita ad un riscatto sociale. Vietato e infine distrutto dal regime fascista di Salò, rimase in vita grazie al regista che tenne nascosta una copia del negativo fino alla fine della guerra.
Macchina sempre addosso ai protagonisti, la loro ossessione doveva essere trasmessa a chi guardava, lo sfondo cupo e violento non lascia tregua neanche nei momenti più idilliaci, quando vivere un amore potrebbe annullare tutto il resto, ma qui uomini e donne sono dominati da sensualità, paura, ambizione, rimorso, sofferenza.
L'aria ovattata e quasi irreale del delta padano è l’ambiente di confine fra terra e acqua dove si svolge la parte iniziale e finale della storia, fascino naturalistico e violenza degli elementi, lavoro duro e disperazione della miseria fanno da sfondo al dramma, ma sono i personaggi con le loro emozioni e reazioni a creare il collante perché, scriveva il regista, ciò che conta sono le “storie di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse”.
Codigoro, Comacchio e Boretto sono i luoghi lungo il corso del Po e sul delta padano dove Giovanna ha creduto di potersi affrancare da una vita di stenti e prostituzione e Gino trovare una patria e una famiglia.
La città dove si va per affari o far festa è Ancona, e negli angoli noti della città, il molo Santa Maria, piazzale Duomo, lo scalone Nappi s’incrociano i destini di tutti.
Giovanna era rimasta col marito per paura della povertà e Gino era partito in treno dove aveva incontrato lo Spagnolo, un bohémien pieno di sani principi che aveva cercato, non riuscendo, di insegnargli la libertà.
In città le strade di Gino e Giovanna s’incontrano di nuovo e stavolta senza scampo.
Il grande fiume scorre indifferente, la palude polesana è la palude morale dove affonda la storia dei due amanti, complici nell’uccidere il marito di lei lanciando la macchina giù dall’argine che costeggia il fiume e alla fine della storia precipitando anche loro per un inevitabile contrappasso.
Diviso nettamente in due parti, nella seconda il film ospita i toni del noir francese, mentre tutta la prima parte è all’insegna di un verismo che trova in Verga l’imprimatur più evidente.
La città, questa volta Ferrara, diventa il luogo dove entra in scena Anita, la mite, giovanissima prostituta con cui Gino crede di ritrovare una verginità perduta. Il ritmo del racconto accelera, si fa ossessivo, gli eventi precipitano e la resa dei conti non tarderà ad arrivare.
Come i due amanti di Zola in Teresa Raquin l’amore si è trasformato in odio, Gino si è sentito ingannato e usato da Giovanna che gli ha parlato di un’assicurazione sulla vita del marito, lei invece lo ama disperatamente ed è sopraffatta da gelosia e rancore, e ora purtroppo aspetta un figlio.
Forse questo figlio sarà la salvezza per entrambi, Visconti ci porta a crederlo con abile tattica dissuasoria, il piano sequenza finale con la mdp che spia nell’abitacolo i due amanti in fuga
registra il momento più dolce, l’unico di tutto il film, pochi minuti in cui Gino e Giovanna sono solo l’ uomo e la donna all’alba del mondo e tutto deve ancora iniziare..
Ma la Storia riafferra e stritola, la disfatta è vicina, le difese cadono e il detective alle calcagna di Gino potrà finalmente acciuffarlo in una scena finale in cui si mescolano in dosi massicce amore e pietà, incoscienza e dolore.
Dramma, o forse meglio, melodramma dai toni borghesi vissuto da sottoproletari, Ossessione è un unicum nella storia del cinema per novità di concezione, capacità di opporsi a stilemi calligrafici, stereotipi e conformismi, rivoluzionario nei movimenti di macchina (primi piani, piani americani, campi lunghi, gru) e nel ruolo fondamentale dato alla fotografia.
La storia successiva di Visconti è tappezzata di gloria,ma negli anni quaranta il grande cinema italiano doveva essere costruito e Visconti fu uno dei fondatori.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta