Regia di Roberto Andò vedi scheda film
In un ipotetico catalogo degli autori nostrani di questi primi tre lustri di millennio, il nome di Roberto Andò è probabilmente da inserire nel non troppo affollato gruppo dei registi medi. Dopo una prima fase caratterizzata da una sorta di preziosismo legato ad una certa, insita vocazione alla decadenza degli intellettuali siciliani, con Viva la libertà segna una cesura importante tale è la sapiente rilevanza dell’apologo. Regista colto, memore delle lezioni del passato che ha assimilato con abile equilibrio, sulla scia del precedente lavoro, alza il tiro carezzando il tabù italiano dell’ambizione.
Che già s’annida nel titolo d’agostiniana ispirazione, così come nella scelta di un intreccio che sotto la tunica del giallo classico nasconde il cuore del problema: le responsabilità dei governanti nelle vite degli uomini. E sì, d’accordo, Le confessioni sottintende il discorso sul potere caro a Sciascia e contestualmente la lettura di Petri, ha l’apparenza di un Todo modo visto dall’elicottero che ad un certo punto atterra nel parco del grande hotel in cui si tiene il G8.
Del complicato film di Petri gli manca la deformazione grottesca, ma non è questo il punto. Se ci limitiamo ad un ragionamento che procede per parallelismi e debiti (c’è qualche sorrentinismo? certo, così come l’attitudine allo spettacolo d’autore e ai cadaveri eccellenti di Rosi), ci sfugge quel che davvero manca ad un film così elegantemente costruito da risultate infine poco soddisfacente. Ed è l’allegoria rincorsa per tutto il corso del film e che Andò e il suo sceneggiatore Angelo Pasquini pare non riescano ad afferrare o comunque a padroneggiare.
Se è vero che Toni Servillo sa appropriarsi di un film donandogli un tono, una voce che spesso modula l’intero fluire delle immagini sullo schermo, è altrettanto attendibile ritenere il suo olimpico monaco certosino votato al silenzio una figura eccessivamente simbolica con una deriva quasi goffa nel dialogo con gli animali, dagli uccellini che cinguettano al cane represso. Il suo colloquio con il morituro Daniel Auteil, attorno a cui ruota la storia, si dispiega lungo il film in frammenti da ricomporre infine nel puzzle, come la catastrofica attesa di un’epiphany.
E in realtà questa impossibile immagine di salvezza paventata da coloro che non si arrendono al declino non sa trovare una forma davvero potente, un’iconografia degna della questione. Andò preferisce lambire le suggestioni di un mondo lontano e in fondo sconosciuto con l’algido e sontuoso minimalismo di un cesellatore che conosce il mestiere. Purtroppo qui non riesce a raccontarci fino in fondo le conseguenze del potere, la sua inquietudine e il suo furore, e Le confessioni sembra aprire le ali senza essere capace di volare, come un gabbiano ipotetico.
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