Regia di Woody Allen vedi scheda film
Metacinema illusionista sull’inganno psicologico provocato dalla deformazione del reale, la buffa e delicata parabola di Leonard Zelig contiene, nella sua pur breve durata, più di un messaggio. È un Allen diverso che affina la tecnica del finto documentario già sperimentata nell’esordio Prendi i soldi e scappa e realizza un oggetto arcanamente interessante. Il tema di fondo, per niente velato – inevitabilmente non velato, affiora con la prepotenza educata di chi vuole emergere per mettere in mostra il proprio disagio: essere soli non è sempre bello, conformarsi agli altri può essere una soluzione. Non è un trasformismo opportunisticamente arrogante, ma violentemente, disperatamente, necessariamente opportunistico: il volersi omologare a ciò che circonda il suo involucro “ufficiale” gli serve per espiare il proprio senso di angosciosa solitudine.
Egoisticamente, Leonard Zelig desidera apparentemente adeguarsi al resto, ma in realtà non può far altro che esplodere nel contesto nella sua diversità, proprio perché non assemblabile a quella realtà nella quale vuole immergersi per trovare una determinata dimensione di esistenza. Gli Zelig sono tanti, è uno e multiplo di sé stesso, potrebbe essere uomo-camaleonte, potrebbe essere mille uomini: insomma, il segreto nascosto nell’inconscio (o addirittura nel sub-inconscio) rimane tale, il bianco-nero straniante – formalmente riconducibile al sapore documentaristico dell’opera – cerca, in realtà, di agire nella mente dello spettatore alfine di isolare questa storia allucinante e contestualizzarla laicamente, fuori dall’oggi o da come vediamo noi oggi il ieri. Zelig si prende gioco di noi perché ha fondamentalmente bisogno degli altri per trovare il suo posto nel mondo. L’unico rimpianto resta quello di non aver terminato la lettura di Moby Dick.
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