Regia di Dennis Hauck vedi scheda film
Too Late, volendo dirla sinteticamente, è un moderno giallo dal sapore hard-boiled, pieno zeppo di elementi emotivamente intensi e drammatici, una sublime prova di cinema e metacinema, ma soprattutto un omaggio al mondo femminile.
Erano mesi che intendevo scrivere qualcosa su Too Late ma ho sempre avuto la sensazione che sarebbe stato molto difficile riuscire a dare l’idea esatta dei motivi per i quali questo film mi ha così entusiasmato da convincermi a inserirlo nella lista dei miei 30 preferiti di sempre.
Consiglio a chi non ha ancora visto il film di fermarsi al commento generale e posticipare al dopo visione l’approfondimento sulla trama.
Partiamo dall’inizio. Dennis Hauck è un regista che prima di questo suo esordio nei lungometraggi aveva alle spalle due corti, di cui il secondo, Sunday Punch è a tutti gli effetti una sorta di spin-off di Too late (se non fosse che è stato girato 5 anni prima), finanziato tramite un’iniziativa di crowfunding. Ma ne parleremo dopo.
In tanti hanno colto in questo Too late riferimenti da bias cognitivo alla disconnessioni temporali di Pulp Fiction e in generale allo stile di Tarantino o ancora al Marlowe de Il lungo addio, mentre è evidente piuttosto l’omaggio a Il grande sonno, tanto che potremmo citare vari spunti narrativi che a quest’ultimo riconducono. Ma analizzando meglio i fatti, spogliandosi dunque della propria deformazione da cinefili, va detto che Too late è intriso di aspetti originali che lo portano ad assomigliare quasi esclusivamente a se stesso, risultando comunque figlio di una passione sfrenata di Hauck verso il cinema a cui si fa riferimento costantemente sia con citazioni esplicite nei dialoghi che con vari richiami narrativi e di messa in scena.
Too Late, volendo dirla sinteticamente, è un moderno giallo dal sapore hard-boiled, pieno zeppo di elementi emotivamente intensi e drammatici, una sublime prova di cinema e metacinema, ma soprattutto un omaggio al mondo femminile. Sì, perché vere protagoniste sono le donne, eroine del quotidiano, trasudanti di umanità; donne che ti spaccano il cuore con i loro affetti persi e ritrovati, i loro sbagli e i loro dolori o ancora la loro incredibile capacità di sopravvivere in un mondo cinico e brutalmente maschilista.
I personaggi femminili paiono a loro modo quasi tutti sbagliati o comunque esseri umani a cui la vita ha deciso di riservare solo amarezze di fronte alle quali reagiscono con sorprendente dignità. Il ritratto di queste donne che Hauck riesce a costruire è semplicemente magnifico, perché vero e sublimato in un’umanità complessa e dolorosa.
Film che, dicevamo, testimonia la straordinaria regia di Hauck ed il suo grande amore per il cinema: girato in un arco di tempo di ben 2 anni su pellicola da 35mm è composto da 5 piani sequenza da 22 minuti ciascuno, temporalmente mescolati tra di loro, il cui filo conduttore è l’indagine di Mel Sampson (un immenso John Hawkes), investigatore privato che nel sud della California si muove alla ricerca degli autori dell’omicidio di una giovane “ballerina sporca”.
I 5 piani sequenza sono così ben realizzati da non essere mai spudoratamente evidenti ma tali da porre piuttosto chi guarda in una sorta di soggettiva partecipativa. Bill Fernandez è il magico direttore della fotografia che riesce a superare l’ardita prova, girando tali piani in un continuo cambio di spazi e inquadrature. L'uso dei piani sequenza costringe gli attori ad una intesa notevole soprattutto nelle scene affollate - la sensazione è che alcuni di loro facciano parte una stretta cerchia di amici del regista - e sottopone l'intero processo di ripresa al rischio di qualche improvvisazione, del cambio battuta e dunque di una picciola dose di impredicibilità del girato. La scomposizione temporale, inoltre, pur rispettando una sequenza logica che dà il giusto e progressivo senso ai fatti, è un espediente che conferisce all’opera maggiore impatto emotivo e stimola l’attenzione, costringendo lo spettatore al successivo incastro degli eventi.
Senza dubbio tra le figure maschili l’unico che pare realmente salvarsi è Mel, un antieroe che ha sbagliato tutto nella vita, ormai pieno di rimpianti e disillusioni, ma con un grande cuore ed una fine ironia con cui riesce a metabolizzare le durezze del vivere. Ha un “rituale” che è ciò in cui continua ancora a credere e a cui affidarsi per dare un senso ultimo alla propria esistenza. Hawkes lo interpreta depurandolo da durezze di genere o sentimentalismi posticciamente cinematografici rendendolo un detective dal volto umano, uno spiritualmente perso che senza timori è oltretutto capace di amare una ballerina di lap dance a sua volta persa.
L’incipit è in un dialogo tra due spacciatori, Matthew (Rider Strong) e Jesse (Dash Mihok): “Sarebbe fantastico se ad uno dei protagonisti dessero una copia del film per spiegargli cosa è successo[…] Come in quelli che iniziano con un piccolo equivoco […] fin quando non si capisce più niente” afferma uno dei due all’altro che replica “Cioè, la VHS originale con tanto di copertina che trovi in negozio? Cazzo, dagli un Blu-ray“. Dialogo talmente surreale da esprimere in realtà una doppia verità: da un lato quella del loro microcosmo confusionario; quella dello spettatore dall’altro, al quale viene suggerito che solo l’intera ricomposizione dei 5 lungometraggi consentirà di comprendere tutti i risvolti della vicenda.
Uno dei pregi di Too Late è costituito proprio dai dialoghi da antologia, serrati, incalzanti, ammiccanti, duri e spesso taglienti. Sembra a volte siano perfino l’espressione di brevi flussi di coscienza perché all’apparenza arcani o fuori contesto e comunque spesso carichi di sottotesto. Di frequente contengono citazioni filmiche che dimostrano la pervasività del girato nella vita dei protagonisti ed amplificano l’effetto di verosimiglianza, quando gli stessi nominano titoli e scene come se non facessero parte essi stessi di un film (si pensi a Lock & Stock dove ad un certo punto un componente di una banda si domanda "Ma cos'è questo? ‘Pulp Fiction’?").
Anche la musica aggiunge strati di diegesi quale elemento indissolubile dalle immagini e la scelta sembra spesso ricadere su classici del passato dalle sonorità imprevedibilmente attuali. Copiosi i generi che vanno da rock e country alternativo a vecchio rap dei ‘70, rock underground, funk e soul, indie pop rock e post punk.
Volendo dare ai 5 atti un titolo simboleggiato dai luoghi di messa in scena potremmo adottare la seguente nomenclatura: il parco, la villa, lo strip club, il drive-in e l’albergo. La sequenza temporale sarà nei fatti lo strip club, il parco, l’albergo, la villa e il drive-in. Nell’analisi del film seguiremo ovviamente la stessa sequenza proposta in Too Late.
L’omicidio all’Elysian Park nei giardini della Radio Hill di fronte al Dodger Stadium, che avviene nel primo atto, in effetti costituisce lo spunto narrativo dell’intera vicenda e consente di farci mettere da subito l’anima in pace sul destino della giovane vittima, seguendo una filosofia un po' hitchcockiana. Si tratta di una strip girl di nome Dorothy Mahler (Chrystal Reed) che, “avendo visto qualcosa che non doveva” sa di essere in pericolo e fa una chiamata da un cellulare preso in prestito dai suddetti spacciatori chiedendo aiuto a Mel Sampson, una di quelle persone “che non dimentichi e basta, anche se la hai viste solo due tre volte”, conosciuto tre anni prima e mai più reincontrato.
Mentre lo chiama, la camera fa zoom sul balcone della casa del destinatario situata in un triste condominio immerso in un modesto quartiere, con scritte alle pareti in cinese. Mel prende subito la sua Pontiac Trans am per raggiungere la ragazza (occhio al gesto del parasole) e a quel punto la camera restringe lo zoom e ritorna sul parco. Lo stacco filmico pur inserito in un piano sequenza, è esteticamente contrastivo nell’anteporre lo squallore metropolitano alla bellezza naturalistica ed è per certi versi quasi spericolato nel separare il lontano caos urbano dall’apparente ma ferale quiete del parco.
“Mi piacciono i vecchi film” - “Li proiettano ogni sera anche al cimitero di Hollywood”
Dorothy, allontanatisi temporaneamente gli spacciatori, incontra un sedicente ranger del parco, Skippy Fontaine (Brett Jacobsen), con il quale inizia un dialogo amichevole e all’apparenza seduttivo ma nei fatti tragico.
“è risaputo che il lavoro in due si fa più in fretta”
Arriva Mel, ma è troppo tardi. E gli spacciatori che erano ritornati per rivedere la ragazza la scoprono morta e scappano via, pensando di averla uccisa con le due pillole di extasy che le avevano offerto.
Nel secondo atto Too late sembra già spiccare il volo, proponendo una delle figure più tragiche e commoventi dell’intero film. La scena si apre in una lussuosa casa di Hollywood Hills, al suono di Vibration Match di Marmie Stern, con la bellissima Janet (Vail Bloom), che si trucca per un’uscita serale insieme al vecchio marito Gordy Lyons (Robert Forster), malavitoso proprietario dello strip club in cui lavorava Dorothy. Lui, quando Janet si presenta in terrazza dove sta gozzovigliando con l’amico e guardaspalle Roger (Jeff Fahey) e la di lui moglie, la amorfa e cinica Veronica (Sydney Tamiia Poitier), la censura con severità suggerendole un abito più sobrio.
Janet rientra in casa disperata, piange, Nobody’s Baby Now di Nick Cave pare quasi confortarla mentre si spoglia, ma il campanello e l’interfono interrompono odiosamente la musica per due volte. La donna è così frastornata che ormai va seminuda ad aprire e trova sull’uscio Med che si fa offrire da bere e ascolta le sue parole di disperazione: “Non esco da questa casa da 13 gg. Mi piacerebbe se mi portasse in uno stupido supermercato, se tornasse a casa una sera, portando della pizza, noleggiando Iron Man 3, e dicesse ‘ehi amore che dici se lo guardiamo insieme questa sera?’”.
In queste poche frasi, che sono un po’ la summa della bellezza dei dialoghi di questo atto, c’è l’affresco del dramma di una donna che ha sacrificato la propria esistenza e che ha visto scorrere davanti ai propri occhi il treno della giovinezza e delle speranze disilluse, per aver deciso di amare colui che si è rilevato un porco insensibile, illudendola che la vita nel lusso le avrebbe offerto amore e felicità: “Dove diavolo dovrei andare? Sono troppo vecchia per il fidanzamento“.
Mel prova a consolarla con una frase che è una delle chiavi di lettura di se stesso “Tu sei una persona che vive nel passato, nel futuro e mai un pensiero sul presente”. Il metariferimento è alla decostruzione temporale del film ma anche al “Too late”, al non far le cose nel tempo e nel momento giusti; non dunque un invito a cogliere gli attimi ma quello al saper assaporare i momenti quando accadono, perché dopo sarà troppo tardi.
Quando Janet scopre che il detective è là per strangolare a mani nude il marito, che ha fatto uccidere Dorothy “perché ha trovato delle polaroid di lui che riceveva un pompino da una donna che non era la moglie”, inizia a sbroccare sversando verso il coniuge tutto il proprio risentimento:, “Ho una bocca (per i pompini, ndr), un cuore, un’anima e una gioventù, era tutto tuo!“ e inveisce ricordandogli che Roland Emmerich le avrebbe potuto dare una parte in un film se non avesse bruciato la sua vita con lui (notare come finzione pura e verosimiglianza prossima al reale si mescolino costantemente).
Tutta la composizione dell’episodio è semplicemente magnifica, dal punto di vista estetico (gli interni della villa lussuosa e la terrazza panoramica), musicale e recitativo, con Hawkes che sembra un personaggio impassibile, una monade ormai capace di interiorizzare l’indicibile senza scomporsi, in evidente contrasto con la esplicita disperazione di Janet. La sua pacatezza gli consente di destreggiarsi con disinvoltura in quel trivio, tra i consigli affabili verso la padrona di casa dalle “tube legate” per colpa del marito e le impavide minacce fisiche che rivolge allo stesso malavitoso e alla sua amorale spalla in stampelle, che è poi il padre dell’assassino di Dorothy.
Finale dell'atto sulle note di Why I love Country Music dei Lloyd Cole & The Commotions, che fa affermare a Med un serafico “Devo cambiare la mia vita“, forse una delle scene più traumatiche e nel contempo divertenti del film.
La terza parte si apre in uno strip-club, probabilmente si tratta di quella più rilevante per la forza dell’impatto visivo, oltre che per il suo fascino emotivo. Betty Davis canta If I’m in luck I might get picked up, l’atmosfera è scura, rarefatta, le luci bluastre. Compare una debordante Jilly Bean (Dichen Lachman) che volteggia intorno ad un palo di lap dance.
Amo la Lachman, l’espressività impressionante del suo volto asiatico e la voce calda e vibrante. Per lei una marea di presenze in serie televisive (merita in Dollhouse) e pochissimi film all’attivo, tutti abbastanza dimenticabili (Aquamarine, Lust for love, tanto per citarne un paio). Hauck la valorizza a dovere portando sul grande schermo tutto il suo magnetismo.
Seduto ad un tavolino c’è Mel che sorseggia il suo bourbon (qui sì che il riferimento esplicito è a Marlowe) e parte l’adescamento serrato da parte di Jilly, che dispensa con godibile cinismo malignità senza limiti sulle proprie colleghe: una gli parlerà dei figli e del marito; quell’altra ha l’herpes; una sta facendo un pompino al titolare e poi c’è quella “sexy come una betoniera per il cemento” che pensa solo a tornare a casa “per leggere Dostoevskij e fare il suo Sudoku”. “Sto provando a dirti - conclude - che se stai cercando un’offerta migliore non arriverà”.
Mel con flemma le sgancia una corposa mancia non per la lapdance - sostiene - ma “per il discorsetto” e perché lui possa tornare a sorseggiare il suo bicchiere. Jilly rifiuta sdegnata e va via.
Difficile non amare la spudoratezza sfrontata di questo dialogo e la recitazione provocatoria di entrambi i duellanti. Il fatto sorprendente è che di lì a breve scopriremo che è proprio la scontrosa Jilly quella ballerina di lapdance con cui Mel avrà una storia a cui accennerà nella lussuosa casa del malavitoso parlando con Janet.
Parte il secondo adescamento. Si avvicina al tavolino Dorothy, che inizialmente chiede a Mel, sentendo odore di rifiuto, se per caso sia un moralizzatore alla Travis Bickle - abituatevi perché i riferimenti sono una costante nel film - . Mentre i due parlano si vede in sottofondo Jilly al banco del bar con aria indifferente; Dorothy sorride e fa le fossette, Mel la guarda ammaliato. La composizione estetica della scena a tre è sublime.
Inizia un nuovo dialogo serrato ma questa volta ogni singola frase ha un significato profondo ed una stretta correlazione con le altre parti della storia, dunque con quanto abbiamo visto o quanto vedremo nei vari atti.
Dorothy pare attratta da quell’individuo che si perde nei suoi occhi stupendi, ma quelli sono gli occhi dello stesso Mel. Lui cerca solo amicizia: “Mi sono fatto grandi amici in tutti posti strani” afferma e lei replica che il suo istinto “le ha sempre detto di fidarsi degli sconosciuti”… ma proprio questo fidarsi le costerà caro nel parco.
Lei lo mette alla prova segnalandogli che un cliente la avrebbe minacciata con la pistola: Mel va infuriato verso di lui (David Yow, ne riparleremo) salvo scoprire che non ha alcuna arma.
Lei nel frattempo scompare, lui la cerca, entra nei camerini, dà uno sganassone a una guardia, lascia il locale e va nel club musicale dove la sua amica Sally Jaye canta alcune canzoni interpretate con mood triste (riferimento a Song Sung Blue di Neil Diamond). Dorothy arriva e si fionda a sorpresa nel camerino dove Mel si sta scattando scherzosamente delle foto (quelle che finiranno nel parasole della sua auto, spiegandone il rituale).
Mel la invita ballare mentre Sally canta, ma a Dorothy gira la testa perché ha preso per la prima volta delle pillole di extasy (le stesse che prenderà prima di morire). Lui sorpreso le chiede “perché ora?” e lei risponde: “Perché ora? E’ una domanda stupida perché è ‘ora’ ogni volta che facciamo qualcosa perciò se tutti lo chiedessero sempre non faremmo mai nulla. Sarebbe sempre troppo tardi” (è il discorso del vivere il presente che Mel farà poi a Janet). Lei è intontita e chiede a Mel “Posso salire sui tuoi piedi come una ragazzina e tu balli per me?” mai pensando che quel gioco di padre e figlia non sia affatto un gioco.
E lei ancora Dorothy: "Posso gridare al lupo al lupo?" - "Certo, puoi gridarlo ogni volta che vuoi, ogni volta che avrai bisogno io ci sarò" (come quando correrà per cercare di salvarla). E infine Sally Jaye chiude il concerto e chiede a Mel di strimpellare alla chitarra un suo componimento, una canzone su una certa Mary. Dorothy osserva che anche la madre ha quel nome, Mel risponde che tante donne hanno quel nome…
Pochi secondi chiudono l’atto. Anche la ballerina Jilly è amica della cantante ed entra improvvisamente nel locale chiedendo a Sally se – Gesù - anche lei conosca quel tizio (coglione, ndr). È qui il primo richiamo al corto Sunday Punch.
Siamo arrivati al quarto atto, che è quello che mi ha fatto più amare l’intero film. È commovente e duro allo stesso tempo; è nostalgico e tragicamente doloroso; è metacinema e per questo è stracolmo di amore per il cinema; è infine un omaggio incantevole alle donne, al loro disperato coraggio e alla loro immensa capacità di abnegazione nel mondo.
Apre musicalmente l’atto Waymore’s Blues di Waylon Jennings, compare Jilly. Ne è passato di tempo da quando ha tentato di ricattare il padrone dello strip club con delle polaroid trovate fortuitamente che ha poi buttato a caso in un cassetto. Jilly è poi dovuta scappare e per capire cosa le sia successo è chiaro che ci si debba rivolgere a Sunday Punch. Ora lavora nel drive-in dove è ambientata questa quarta parte, avvia e riavvolge le pellicole del proiettore e nello stesso tempo fa la ring girl perché il sabato sera “danno le lotte”.
Le parole messe in bocca a Jilly sono sempre affilate come la lama di un coltello. Mentre è sul ring col cartello del round, le si presenta davanti agli occhi Mel (suona I’ll remember you di Bob Dylan) che accoglie con una smorfia di sorriso e il suo solito linguaggio forbito: “sentivo odore di cazzo”.
I due si parlano, capiamo che sono stati insieme per un anno facendosi reciprocamente del male (“Il mio cuore era fuoco tanto tempo fa”). Lui le chiede di lei e di un boxer "muto" con cui ha lasciato la città: “Finita la luna di miele?” – “Siamo a corto di argomenti di cui parlare” risponde ironicamente Jilly che poi gli racconta di aver ucciso un uomo (è lui che le ha insegnato a sparare). In sottofondo We all make the flowers grow di Lee Hazlewood.
“Non ne posso più di guardare film ogni sera. Vedo Barbara Stanwyck, Mirna Loy e penso a quanto erano belle. Adesso sono morte e il mio momento è arrivato.” Si riferisce ad una opportunità che ancora aspetta ma anche ad un evento nefasto che potrebbe ormai coglierla. Fa impressione constatare come una donna tanto forte, nonostante ancora giovane e bella, sia già giunta al capolinea della propria esistenza fatta di faticosi sacrifici, guai e storie sbagliate.
“Mettiamo in scena il dramma della gelosia? Non ho ancora ricevuto le mie battute“ risponde Jilly a Mel che le ha appena chiesto come abbia imparato a fare la proiezionista.
Ed è proprio nelle immagini che seguono che si percepisce quanto visceralmente Hauck sia legato al mondo del cinema. Mentre scorre Carnival of souls sul grande schermo, Jilly stura un cesso otturato dalle feci dei clienti. Poi entra nella sala proiezioni e va a cambiare la pellicola. Mel sulla sinistra nel frattempo osserva dei fotogrammi di un altro rullo, dietro di lui campeggia un poster di Ms. 45 di Abel Ferrara. Come si fa a non amare una sequenza così lurida eppure tanto immensa che mischia sacrificio ed arte!?
Mel, ascoltando da Jilly la storia del ricatto, si raggela, rammentando il motivo fortuito per il quale Dorothy è morta. Lui comunque è là per catturare Fontaine che sta assistendo in auto alla proiezione: il delinquente forse è là per uccidere Jilly.
Finale che parte con il tono allegro di We all make the flowers grow di Lee Hazlewood e si conclude con una delle scene più strazianti della storia del cinema, in cui Mel sanguinante implora la vicinanza di Jilly. Lei vorrebbe chiamare l’ambulanza con la scusa di cambiare rullo e lui le risponde che ha "già visto questo film" e sa che si tratta dell'ultima bobina, ma sta parlando ovviamente anche di sé.
Le chiede di sposarlo e avere insieme una figlia, quella che gli è evidentemente mancata (sembra quasi parli un padre divorziato a cui sia stato impedito di frequentare per anni la propria bambina); alla piccola lui potrà insegnare tante cose e - aggiunge Jilly - potranno mostrare la prima serie in DVD dei Muppet show. Sul finestrino scorrono le immagini di un filmino, sembra un 8mm: è Mel che gioca con una bambina ed insieme salutano verso la camera. Impossibile non commuoversi.
L’ultimo episodio vede Mel recarsi in un Grand Hotel ingaggiato come investigatore dalla madre di Dorothy, Mary Mahler (Natalie Zea) e dalla preoccupata nonna Eleanor (Joanna Cassidy), ancora ignare del destino della ragazza scomparsa, nella cui casa hanno trovato dei riferimenti all’investigatore. Mel chiede alla nonna di uscire dalla stanza e fa a Mary una doppia sconvolgente rivelazione, sulla morte di Dorothy e sull’uomo con cui Mary l’ha concepita - una cantata di Bach a volume soffuso sottolinea il momento drammatico. Bravissima Natalie Zea la cui espressione del volto ed i cui comportamenti passano dalla spavalderia sessualmente provocatoria alla disperazione più totale ed alla rabbia.
Quella Mary che ci viene presentata ad inizio atto come una riccona nullafacente e viziata, in realtà sembra essere stata una giovane ragazza rimasta per sempre intrappolata da una storia d’amore per un uomo che, senza che lei lo capisse, è scappato via per l’umiliazione di sentirsi socialmente inadeguato. Sono i momenti emotivamente più profondi della storia e toccante è anche il muto dramma di Mel, inseguito per i corridoi dell’albergo da Eleanor sulle note di Elevator di Robert Allaire che nei fatti è l’unico brano scritto appositamente per il film.
La camera precede Mel, poi lo affianca e scesi al piano terra ne segue i passi; lui si ferma prima al bar poi a bordo piscina, la camera passa davanti e lui riprende il cammino superandola sulla sinistra. Un piano sequenza indimenticabile.
Nel finale Mel viene colpito alla testa dai due spacciatori che intendono stordirlo e ucciderlo con una pistolettata pensando sia un testimone scomodo per la morte della ragazza incontrata nel parco che avrebbero ucciso. Mel dopo poco si rialza, si versa dell'alcol sulla ferita da fuoco, entra sanguinante in auto e cala il parasole, osserva le sue foto con Dorothy e riparte.
Siamo ai titoli di coda anche di questa lunghissima recensione, restano alcune note su Sunday Punch. Il corto è irreperibile se non un sito pachistano. Mesi fa provo a contattare via mail la casa di produzione Foe Killer Films ma non rispondono. Il sospetto è che dopo lo scarso successo al box-office di Too late abbiano chiuso bottega. In realtà, lo scopro in queste ore, la Foe sta producendo un nuovo film di Dennis Hauck, Al's Brand il titolo presumibile, le cui riprese sono state interrotte dalla tragica morte di Halyna Hutchins sul set di Rust). Il corto riesco comunque ad ottenerlo sui classici mercatini digitali dell'usato.
Sunday punch è la storia di una ring girl (la Lachman impersona sempre Jilly) che incontra in un locale, dove canta la sua amica Sally Jaye, Arthur (David Yow) un ex fantino. Lei cerca un uomo che chiuda la bocca e le massaggi i piedi quando torna a casa; lui pensando di non essere all’altezza le versa furtivamente una droga nel bicchiere per violentarla. Nel frattempo Charlie (Samm Levine), un malavitoso ex amante di Jilly, la ricatta affinché convinca un pugile muto (Mike Irksen) a perdere una gara.
Altro sottobosco umano in questo breve racconto che anticipa in pieno le tematiche di Too Late. La prova di Lachman è ancora grandiosa - la scena nel deserto è memorabile - e nel corto è la protagonista assoluta.
David Yow, che, come scritto, nel lungometraggio fa una impercettibile comparsata, è un personaggio strambo e di culto, attore ma soprattutto cantante e sperimentatore vocale, ex frontman di due band rispettivamente hardcore (Scratch Acid) e noise (Jesus Lizard). Tra le sue prove cinematografiche non viene mai citato né per Too Late né per il corto ma su youtube è interessante guardare cosa combini.
Eccoci giunti alla fine.
Giudico Too late uno dei migliori film del nuovo millennio. Trattato con somma superficialità dalla critica, sconta il peso della affinità con l’opera di Tarantino ma dentro c’è ben altro.
Voto 10/10
p.s. Un doveroso ringraziamento va a Giuseppe Armellini de Il buio in sala per avermi fatto conoscere questo film. Altro ringraziamento va all'impagabile zasor56 di dvdessential.it per la pazienza e disponibilità con cui mi ha aiutato a tradurre un paio di passaggi assai ostici del corto.
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