Regia di Devon Downs vedi scheda film
Un viaggio senza ritorno per sei studenti americani, ospiti di una cittadina lituana. Film estremo, girato con stile e grazia, nonostante diversi aspetti, decisamente crudeli. Un buon esordio in regia per una coppia di autori in seguito prolifici nel genere horror.
Amy, Brock, Jesse, Stephanie, Kevin, e Kelly sono sei studenti di college in vacanza a Vilnius in Lituania. Mentre sono a un party, Brock si fa sedurre da Uta, una bionda locale. La ragazza convince Brock e Amy a seguirla per farsi fare un tatuaggio nel "Negozio" presso il quale lavora al servizio dell'Artista, un "rinomato" esperto di zona. Una volta entrati, le cose si fanno confuse: sotto effetto di una sostanza bloccante, Brock subisce un allucinante supplizio, finendo per essere scorticato vivo -sotto gli occhi di Amy- dalla coppia di spietati tatuatori. Ma perché l'Artista poi rimuove la pelle della vittima con tanta cura?
"Lo scorticamento, o il processo di rimozione della pelle dal corpo, è in realtà una pratica antica utilizzata dagli Assiri durante la dinastia Ming. Veniva utilizzata unicamente per le esecuzioni e le torture. Alcune tribù dell'Europa scoprirono che la pelle può servire a un più nobile scopo (...) ci sono sette strati di pelle. La pelle è in realtà un organo. Dobbiamo tagliare tutti i sette strati per poter creare la tela perfetta." (L'Artista tatuatore)
Esordio in regia per la coppia Devon Downs e Kenny Gage, autori anche del soggetto e -non a caso- in seguito di nuovo sui set di Cynthia, Buried secret, Paid in blood e Frankenstein gothic. Questo Anarchy parlor infatti è un buon esempio del loro talento, valorizzato dalla splendida messa in scena ed è evidente come abbia loro aperto le porte del cinema. Tutta la prima parte, ad esempio, può contare sulle migliori scene mai girati in una discoteca. La macchina da presa si muove sinuosa, sale e scende dolcemente dai piani, attraversa delicatamente le pareti passando da una sala all'altra -muta testimone di baci, carezze e amplessi improvvisati- mentre i più morigerati si lasciano travolgere dal solo piacere del ballo. Questo idilliaco incipit, accentrato sulla bellezza dei giovani ospiti, presto cede il passo al thriller. Quando compare l'anonimo artista, che ha le inquietanti forme di Robert LaSardo, si intuisce che il film sta per prendere tutt'altra direzione. La brutalità della sequenza che segue denuncia quali siano le reali intenzioni della bionda lituana e del tatuatore: utilizzare la pelle umana come tela, destinata ad ospitare ritratti di famiglia. Tutto al servizio di una lobbies di miliardari, disposti a sborsare cifre impensabili per avere un quadro così pregiato.
Downs e Gage, pur muovendosi nell'ambito di un low budget, non rinunciano all'esplicito e mettono in atto un paio di sequenze davvero forti, dove al sangue versato si mescolano lacrime e urina. Quello che colpisce, nel film, è il cinico atteggiamento degli sconosciuti, indifferenti al dolore altrui, e in grado di considerare il prossimo alla stregua di un animale: "Per nutrire il mio cane, usavo orecchie di maiale", confessa l'Artista a Brock, prima di recidergli un orecchio e darlo in pasto al suo mastino. E la povera Kelly, in fuga dall'antro dell'orco, finisce (nuda, insanguinata e piangente) tra le mani di un gruppo di sadici ragazzi del posto, intenzionati a divertirsi con la "straniera" e indifferenti alle sue inutili suppliche e al pianto ininterrotto. Il sottotesto razzista, nel film è presente. Non significativo ma insinuante. Come già era successo per Hostel, criticato a suo tempo per come Eli Roth tratteggiava la Slovacchia, così in Anarchy parlor la Lituania non ne esce ben rappresentata (spesso il dialogo dei locali non è tradotto e nemmeno sottotitolato, accentuando così la sensazione di estraneità dei turisti). Non ne esce un lodevole profilo della Lituania, soprattutto se è vero l'annuncio che dice -sui titoli di testa- essere il film ispirato da fatti realmente accaduti. Pur nella limitazione di un plot ovviamente affogato nel genere sex & violence (le ragazze locali, oltre a spogliarsi in fretta, hanno tutte bellissimi seni extra large; la brutalità di Uta non conosce confini, come dimostra la scena del piercing al clitoride), Anarchy parlor tiene incollati davanti allo schermo. L'ottima regia può contare anche sull'apporto di una notevole fotografia e di effetti speciali realisticamente stomachevoli. Un calo, inevitabile, si manifesta nel finale: troppo fantasioso e con conversione pressoché impossibile da parte della superstite. Non un capolavoro, tutt'altro, ma avercene di "opere prime" così.
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