Regia di Aleksandr Kott vedi scheda film
La breve stagione d'amore della bellissima Dina è il tema dominante del racconto (di formazione), ma anche la struggente allegoria di un destino segnato: quello di un mondo in cui l'equilibrio policromo degli elementi naturali legati all'immutabile alternarsi delle stagioni viene stravolto dalla terrifica singolarità di un fungo atomico.
L'idillio bucolico di un pastore kazako e della sua giovane figlia viene turbato dalla contesa d'amore tra due buffi pretendenti e dall'eco lontana di una minaccia tecnologica in grado di stravolgere il destino dell'intero genere umano.
Dina e L'Antropocene
La sfolgorante bellezza della steppa kazaka, la tacita convivenza di un padre vedovo e di una figlia adolescente, l'inesorabile traiettoria eclittica di un astro che arrossa i versanti opposti di un orizzante sconfinato, l'incessante ululare del vento in una terra senza tempo; tutto scandisce i cicli immutabili della vita e della natura in questo film senza dialoghi del moscovita Alekander Kott, dove il percorso obbligato di una tradizione secolare subisce le piccole e grandi deviazioni di una incipiente modernità: dalla transumanza quotidiana di un camioncino a motore alla surreale spola di un monoelica senza ali, dalle costrizioni patriarcali di un matrimonio combinato ai palpiti del cuore per un amore rimasto in panne, dalla serena rassegnazione di essere sepolti nel luogo in cui si è nati alla terrificante prospettiva di esservi violentemente dissepolti. A quattro anni di distanza dall'esordio nel lungo con la ricostruzione storica dell'assedio di Brest, Kott ci catapulta nel dominio post bellico di un poligono nucleare sovietico, ma lo fa dal punto di vista di una sparuta popolazione autoctona testimone inconsapevole dell'inizio dell'Antropocene, affidando ad una poetica trasognata di capelli sciolti rosseggianti al tramonto ed alla grottesca pantomima di una lotta ritualizzata per il possesso della femmina il risultato di un esperimento cinematografico di preziose contaminazioni stilistiche in cui la sapienza figurativa di una rappresentazione pittorica del paesaggio (splendida la fotografia di Levan Kapanadze) si fonde con un gusto del grottesco che privilegia la tacita intesa dei suoi stralunati personaggi e l'allarmante dualismo degli elementi simbolici (tradizione e modernità, strada carraia e biforcazioni, steppa a perdita d'occhio ed invalicabili confini militari).
La breve stagione d'amore della bellissima Dina è il tema dominante del racconto (di formazione), ma anche la struggente allegoria di un destino segnato: quello di un mondo in cui l'equilibrio policromo degli elementi naturali legati all'immutabile alternarsi delle stagioni
viene stravolto dalla terrifica singolarità di un fungo atomico ritratto nel plastico stop motion del suo proteiforme sviluppo verticale: insensata sfida dell'uomo alle inferiche forze di una natura che uccidono i padri, cancellano i figli e restituiscono alla terra la loro sterile eredità di annientamento e devastazione. Passato quasi inosservato al grande pubblico, è stato giustamente premiato a Sochi, Tokyo ed al Golden Orange Film Festival di Antalya.
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