Regia di Tim Burton vedi scheda film
Burtoniano.
Nell'animo, nei toni, nelle tematiche, nello sguardo, nella più intima delle (p)ossessioni/paranoie personali, nella inconfondibilissima poetica. Mostri, disadattati, esseri "speciali" perseguitati, adulti distanti e incapaci di comprendere, orrori del quotidiano, mondi e cose e figure attinenti a una sfera del fantastico a pochi accessibile.
Non stupisce che il romanzo omonimo del 2011 di Ranson Riggs dal quale il film è tratto, potesse incrociare, abitare la mente fertile, ma da un po' stagnante, del geniale cineasta di Burbank: elementi, archetipi, principi nel quale specchiarsi, ritrovarsi e sui quali erigere un'altra palizzata del proprio steccato personale.
Confini da cui il Nostro non riesce/vuole/sa uscire: il marchio di fabbrica, la cifra stilistica, la traccia(bilità) che diventano una di quelle prigioni dello spirito che lo stesso da sempre esorcizza.
Ma, s'intenda: Miss Peregrine's Home for Peculiar Children non è affatto un film brutto, o malfatto, o povero di idee - come lo sono stati, ad esempio, Il pianeta delle scimmie, Alice in Wonderland e La fabbrica di cioccolato -, anzi, nel complesso l'opera regge, affascina a momenti, tiene desta l'attenzione al momento giusto.
Contiene inoltre sequenze di sicura efficacia e maestria, quali il racconto della genesi dei "vacui" mangiaocchi di bambini particolari, in ottica felicemente horror, i momenti animati con la sempre cara tecnica della stop-motion, o l'azzeccata, a tratti esaltante, scena al luna park vivacizzata dallo scontro tra gli orribili mostri invisibili e gli impagabili scheletri (ri)animati (l'omaggio è esplicito, sincero, ragionato).
Nell'impianto fiabesco ideato da Riggs e sceneggiato da Jane Goldman (al debutto con Burton), trovano quindi una dimensione florida, ideale, la vena gotica e l'insieme contenutistico tipici del regista di Edward mani di forbice: i diversi, gli emarginati, le malefatte degli uomini, il rifuggire da tutto ciò che è ordinario, comune, conformato.
Ma, stanti quanto di buono c'è, la capacità (e il limite), ancora, di imprimere ed esprimere il proprio celebre immaginario, la fattura tecnica e quella artistica (cast compreso: ça va sans dire, Eva Green è, di suo, splendida, ma l'abbiamo vista ben più impegnata ed entusiasmante, Samuel L. Jackson è un villain riuscito, Judi Dench è buttata via), la resa spettacolare sebbene di ordinaria amministrazione che induce a pensare a riscontri positivi al box office, ebbene, quante volte ancora dovremo vedere la stessa, identica rielaborazione già mandata a memoria?
Giunto oramai a questo percorso di carriera e di vita, Tim Burton - rinchiuso come in una sorta di anello/bolla temporale, ma il tempo passa - può bastare/sopravvivere a(l) sé stesso (burtoniano)? A quando uno scarto netto? E perché non osare, rischiare, spostarsi dai confortevoli recinti?
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